22 Novembre 2024

Poteri pubblici e aziende private per anni hanno alimentato l’interscambio con la Russia senza rendersi conto della vulnerabilità economica dell’Europa e dei rischi

Come ha fatto l’Europa a diventare così dipendente dalla Russia per l’energia e non soltanto? Come mai a coloro che, per conto di pubblici poteri e di imprese private, hanno alimentato per anni e anni l’interscambio con la Russia, non è mai venuto il sospetto di avere infilato la testa nella bocca del leone?
C’è un problema che riguarda l’intera Europa e ci sono le specificità nazionali. Con riguardo alle quali possiamo dire che il caso italiano fa storia a sé. Come in altri momenti del passato, l’Italia si rivela l’anello debole della catena occidentale.
Consideriamo dapprima il problema generale. Perché la dipendenza europea dalla Russia? Si possono citare varie cause. Come la geografia: avere buoni rapporti con un vicino così ingombrante era rassicurante per l’Europa occidentale. Cosa c’era di meglio dei rapporti economici per rinforzare l’amicizia fra vicini? Poi c’era la convenienza: gli affari erano davvero buoni. Per il prezzo di petrolio e gas. E perché la Russia è un grande e appetibile mercato per le merci occidentali.
Gli affari sono affari, si dice, e pecunia non olet, i soldi non hanno odore. Ma non tutti gli affari sono uguali.
Che le cose potessero prendere una brutta piega era chiaro a diversi osservatori da molto tempo. Per lo meno dall’attacco alla Georgia del 2008. E ancor più platealmente dal momento della conquista della Crimea (2014) e l’avvio della secessione nel Donbass. Per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale una grande potenza violava la regola tacita secondo cui la pace in Europa richiede che i cambiamenti di confine siano sempre decisi consensualmente. Perché nessuno si preoccupò allora di fare i conti con la vulnerabilità economica dell’Europa?
È troppo facile dire che era solo una questione di interessi. Naturalmente, gli interessi contano, eccome. Però, vale la regola generale secondo cui gli interessi sono potentemente condizionati dal clima politico-culturale prevalente. Quel clima spinge gli interessi in una direzione o nell’altra, incentiva o disincentiva certi investimenti, favorisce l’ingresso in certi mercati, rende più difficoltoso l’ingresso in altri.
Si consideri l’illusione di cui spesso sono vittime le società aperte quando trattano con le autocrazie. È un’idea antica, presente in Occidente fin da quando Montesquieu nel Settecento scrisse che il commercio ingentilisce i costumi, quella secondo cui l’interscambio economico, e l’interdipendenza che ne risulta, può favorire la pace. Un’idea corretta. Ma che diventa sbagliata se viene estremizzata, se ci porta a pensare che sia sufficiente un’elevata interdipendenza economica perché i problemi politici e geopolitici scompaiano. L’errore consiste nel credere che i rapporti che le società aperte e democratiche intrattengono con una grande potenza autocratica abbiano gli stessi effetti di quelli che tali società intrattengono fra loro.
Da quella concezione errata discendono gli sbagli commessi dall’Occidente. Finita la Guerra fredda e ancora nella prima fase dell’era Putin, si pensò che la Russia non sarebbe mai più stata un pericolo. Se anche non fosse diventata una democrazia di stampo occidentale, la sua apertura al mondo ne avrebbe comunque garantito una definitiva normalizzazione. Era l’epoca in cui la Russia veniva inserita a pieno titolo nelle istituzioni che alimentano quei processi di crescita dell’interdipendenza economica e finanziaria impropriamente chiamati «globalizzazione». Era l’epoca di Pratica di Mare (2002) e dell’accordo di collaborazione allora siglato fra la Nato e la Russia. La Russia era diventata un alleato dell’Occidente. E fu proprio per questo che l’allargamento della Nato ad Est non venne allora considerato né dagli occidentali né da Putin una minaccia alla sicurezza russa.
Che cosa avvenne poi? Avvenne che, un pezzo alla volta, Putin costruì un sistema autocratico personale. Ma in Occidente non suonò il campanello di allarme. Non si mise in conto che il consolidamento di un potere autocratico avrebbe presto o tardi influenzato le relazioni esterne della Russia. C’è un diretto collegamento fra quel consolidamento e l’adozione da parte di Putin di una postura internazionale sempre più aggressiva nei confronti dell’Occidente.
Ma per forza d’inerzia o per quieto vivere, e per effetto dell’illusione sopra evocata, gli occidentali non presero subito atto della nuova realtà. C’è voluta l’aggressione all’Ucraina per scoprire come stanno davvero le cose.
Fin qui il problema generale. C’è poi il caso speciale dell’Italia. Talmente speciale che la Russia ora ci tratta con particolare aggressività: l’attacco al ministro Guerini, l’esposto dell’ambasciatore russo contro La Stampa. Sembra proprio che la Russia si senta tradita dall’Italia più che da qualunque altro Paese europeo. Aiutano a capirlo le ambiguità e contorsioni attuali di una parte abbondante dell’Italia politica, documentate da Paolo Mieli (Corriere, 28 marzo).
Anche in questa occasione l’Italia si conferma come una democrazia difficile. Il che ne fa per l’appunto un anello debole nei tempi duri che ci attendono. L’Italia è da sempre attraversata da robuste correnti antioccidentali, di destra e di sinistra, afflitta da un antiamericanismo tenace e dotato di proprietà camaleontiche, cucinato in varie salse politiche. Ne consegue l’ostilità (minoritaria ma tutt’altro che irrilevante ) alla Nato, un sentimento «trasversale», presente a destra e a sinistra, nonché in settori consistenti del mondo cattolico. È il «di più» che abbiamo rispetto ad altri Paesi europei e che ha contribuito ad accentuare la nostra dipendenza (psicologica prima ancora che economica) dalla Russia e la nostra conseguente vulnerabilità. Senza contare che siamo anche il Paese più condizionato da un ecologismo estremo (no al nucleare, no alle trivellazioni, eccetera) che ha favorito, negli anni, la nostra dipendenza energetica dalla Federazione russa.
Per le cause generali dette e per ragioni più specificatamente italiane, dipendenza energetica a parte, si è sviluppata nel tempo un’ampia rete di interessi, sia economici che politici, che collega il nostro Paese alla Russia.
Ciò che accade sul piano politico (le ambiguità di una parte dei 5 Stelle e della Lega, il silenzio di Berlusconi) suggerisce l’esistenza di più ramificate connessioni.
Per lo più, le guerre hanno la proprietà di bruciare le posizioni ambigue. Se, contrariamente alle aspettative, tali posizioni non verranno davvero punite dagli elettori, vorrà dire che le correnti anti-occidentali saranno state in grado di resistere persino alla guerra. Vorrà dire che l’Italia non cesserà di essere un caso speciale. Le guerre hanno anche, in genere, un effetto «costituente», forgiano, nei vari Paesi, gli equilibri successivi. Anche in Italia (come in Germania) molti interessi economici dovranno comunque riposizionarsi. Sul piano politico, sembra proprio che Enrico Letta e Giorgia Meloni, collocando immediatamente i loro partiti dalla parte dell’Occidente, si siano guadagnati i galloni, abbiano conquistato il diritto di essere i principali protagonisti/avversari della prossima stagione politica. In ogni caso, comunque si distribuiranno le parti, quali che saranno in futuro i nomi dei protagonisti, dei comprimari e delle comparse, la guerra ha generato una nuova divisione: fra chi vuole e chi non vuole togliere la testa dalla bocca del leone.

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