Fonte: Corriere della Sera
di Franco Venturini
Il presidente americano è alla vigilia della scelta più difficile: scendere a compromessi con Mosca, oppure uscire dalla Casa Bianca senza aver davvero affrontato quella che definisce la più terribile minaccia che pesa sull’Occidente
Barack Obama è alla vigilia della scelta più difficile della sua presidenza: deciderà di scendere a compromessi con Mosca pur di battere l’Isis entro quest’anno, oppure uscirà dalla Casa Bianca senza aver davvero affrontato quella che egli stesso definisce la più terribile minaccia che pesa sull’Occidente? Se l’Isis avesse l’atomica la userebbe, ha detto il presidente al vertice sulla sicurezza nucleare che si è appena tenuto a Washington. Nessuno ne dubita, e tutti sanno che una bomba
«sporca» non è poi tanto difficile da mettere insieme.
Non solo: gli Usa sono consapevoli degli effetti destabilizzanti che il terrorismo e le ondate migratorie provocano in Europa, e sanno che in entrambi i casi sono l’Isis e la tragedia siriana a soffiare sul fuoco. Soprattutto, in un mondo che pare frantumarsi ogni giorno di più, i successi dell’accordo con l’Iran e del disgelo con Cuba non bastano più. La presidenza di Obama sarà invece giudicata dalla Storia sul metro della risposta data alla minaccia globale dell’Isis, e del parallelo recupero di dignità politica degli Stati Uniti nei confronti di una Russia rivelatasi maestra nel ristabilire, a tempo di record, la sua influenza in Medio Oriente.
Il presidente non ha molto tempo per sciogliere il suo dilemma. In Siria l’esercito di Assad continua ad avanzare dopo aver riconquistato Palmira con il decisivo appoggio dei cacciabombardieri russi (altro che ritiro, come aveva annunciato Putin). Aleppo è virtualmente assediata. E si parla ormai apertamente, anche a Mosca, di un prossimo attacco a Raqqa, la «capitale» dell’Isis, sferrato anche in questo caso da truppe regolari siriane e aerei russi. Con loro potrebbero agire formazioni miste curdo-arabe che gli Usa da tempo tentano di consolidare, ma ecco allora emergere il tormento di Obama: è concepibile che l’America collabori con Assad il sanguinario pur di battere l’Isis? La Casa Bianca se la sente di fare pressioni sugli oppositori e sulla Turchia per agevolare l’operazione russo-siriana, che non sarebbe comunque una passeggiata?
Fonti autorevoli assicurano che proprio di questo si è parlato il 25 marzo scorso al Cremlino, quando John Kerry ha reso visita al collega Lavrov e a Vladimir Putin. E ciò malgrado la permanenza di un contrasto forte, che ufficialmente nessuna delle due parti vuole negare, sul trattamento da riservare a Bashar al-Assad: uscita morbida, non pregiudizievole per gli alawiti e dopo elezioni secondo i russi; uscita più ravvicinata nell’ambito di una transizione concordata con le opposizioni secondo gli americani (e gli europei) . Con gli americani che aspettano indicazioni più chiare da Obama.
Tanto più che si potrebbe ipotizzare una tenaglia anti Isis tra Siria e Iraq, perché anche in Iraq è in preparazione una offensiva contro la capitale del Califfato, Mosul. Qui si muovono reparti iracheni appena addestrati (anche dagli italiani), truppe speciali e un centinaio di marines americani, reparti curdi (quelli di Barzani) addestrati dai turchi, volontari appartenenti alle tribù sunnite che si è riusciti a mobilitare. E dall’alto la copertura è garantita (potrebbe accadere anche a Raqqa) dalla coalizione guidata dagli Usa. Niente esercito da Assad, da queste parti. Il che rende politicamente più facile una impresa che militarmente resta ardua.
Eccola, la cornice nella quale Obama deve decidere se vuole ritagliarsi un ruolo da protagonista. Mandando giù qualche boccone amaro in Siria, ma avendo anche la possibilità di incidere sul negoziato che tra pochi giorni riprenderà a Ginevra tra potere di Damasco e formazioni resistenti, il che significa con Iran, Hezbollah e Russia da un lato e Turchia, Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo dall’altro. Tra operazioni militari e negoziato diplomatico l’antica strategia del doppio binario torna a essere possibile, almeno fino alla liquidazione dell’Isis. Beninteso ciò richiederebbe un accordo serio tra Usa e Russia sul Califfato e ancor più sul futuro della Siria, senza badare troppo a polemiche di contorno come quelle sui miliardi russi scoperti offshore.
Obama farebbe bene a pensarci e a decidere senza altri tentennamenti, perché il treno per sconfiggere l’Isis e per arrestare in seguito la mattanza siriana potrebbe non passare più. Almeno durante la sua presidenza.
E tra chi non può più aspettare ci siamo anche noi, c’è anche l’Europa. Sconfiggere l’Isis in Siria e in Iraq significa isolare l’Isis in Libia, rendere molto più difficile la sua penetrazione in tutte le aree calde dell’Africa. E ridurre il vantaggio strategico che viene al comando «regionale» di Sirte dalla vicinanza alle coste dell’Italia e dell’Europa. In attesa che venga fatta luce sulle prossime iniziative occidentali in Libia. E ancora, estirpare l’Isis in Siria e in Iraq può avviare processi di pacificazione che resterebbero complessi ma sarebbero tali da ridurre la pressione migratoria verso l’Europa del centronord (non quella in forte aumento che sin qui riguarda l’Italia, figlia dell’Africa e delle milizie libiche) .
Obama vorrà mettersi in gioco? Speriamo di sì, ma non illudiamoci. Una sconfitta militare colpirebbe a morte soltanto l’organizzazione dell’Isis. Continuerebbero a vivere il fanatismo atroce che ha propagato in una parte del mondo islamico, il tentativo di sovvertire le comunità musulmane residenti in Europa, la volontà di tornare all’Islam del VII secolo. La guerra può essere vinta domani, la lotta per le coscienze durerà molto di più.