Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
Il tema è da affrontare perché la fiducia dei cittadini nella legge e nello Stato di diritto è ai minimi termini
Una delle questioni che probabilmente verranno tra le prime nell’agenda del nuovo governo sarà quella della giustizia. Dalla sua soluzione dipendono infatti molte cose certamente importanti — la rapidità nell’attribuzione degli appalti nonché dell’esecuzione dei lavori pubblici, la ripresa degli investimenti stranieri, la durata dei processi in virtù della regolamentazione dell’istituto della prescrizione — ma una più importante di tutte: la fiducia dei cittadini nella legge e nello Stato di diritto. Una fiducia da anni ridotta ai minimi termini non solo a causa dell’andamento della giustizia penale, con la spaventosa durata della carcerazione preventiva spesso destinata a concludersi con un’assoluzione, ma specialmente del contrasto permanente tra magistratura e politica con il reciproco effetto di reciproca delegittimazione che ciò comporta. Il punto cruciale è proprio questo contrasto permanente: anche perché alla fine l’assetto della giustizia dipende in ultim’analisi dalle leggi che regolano la materia, e le leggi come è noto le fa la politica. Considerati in termini di puri rapporti di forza l’attuale rapporto tra magistrati e politici non è un rapporto tra eguali. Infatti i primi hanno in ogni momento il potere di mettere sotto accusa questo o quel politico per una delle migliaia di possibili infrazioni alla miriade di leggi esistenti nel nostro Paese. E in questo modo di distruggere (nel caso migliore di interrompere) la sua carriera, mentre i politici non godono ovviamente di alcun potere analogo. Sta qui la ragione per cui è soprattutto la magistratura inquirente e l’insieme dei suoi poteri il nodo permanente del conflitto.
Proprio per riequilibrare in qualche modo tale disparità gli autori della nostra Costituzione (la cui saggezza viene esaltata acriticamente solo quando fa comodo), pur lasciando libera la magistratura di agire contro i titolari di tutte le altre e minori cariche pubbliche, stabilirono che per mettere sotto inchiesta giudiziaria un parlamentare fosse necessaria invece l’autorizzazione del Parlamento stesso. Ma da quando nel 1993 questa disposizione fu cancellata sotto l’infuriare della demagogia scatenata dalle inchieste di Mani Pulite, si è venuto indiscutibilmente a creare un deciso squilibrio di potere a favore dei magistrati nei confronti della politica. Ciò che oltre a molti altri pone anche il problema di come possa esistere nella pratica un’effettiva divisione dei poteri tra poteri dalla forza così diseguale. Né si dica che però la politica ha il potere di fare le leggi alle quali anche i magistrati debbono sottostare. Perché quel potere ce l’avrà certamente la politica, ma è assai meno certo che invece ce l’abbiano i politici, consapevolissimi dei pericoli a cui si espongono se concepiscono e tanto più approvano leggi sgradite ai magistrati.
Ad accrescere il vantaggio a favore della magistratura c’è poi il fatto che mentre i politici facendo le leggi agiscono permanentemente divisi tra di loro a seconda dei diversi partiti, i magistrati invece, nel difendere l’ampiezza delle proprie prerogative si presentano con una voce sola e per giunta di natura altamente istituzionale quale è il Consiglio superiore della magistratura.
Sta qui, mi sembra, il punto decisivo del problema. Stabilendo l’esistenza del Csm i costituenti vollero evidentemente porre un organo a presidio e dell’indipendenza dei magistrati e quindi degli interessi della giustizia. Non si resero conto però che nella pratica, come è fatale che avvenga in tutte le istituzioni rappresentative a base corporativa, quella loro creatura era esposta al pericolo fatale di divenire soprattutto il presidio degli interessi dei magistrati stessi, della supremazia del loro punto di vista su ogni questione, della loro carriera, della loro virtuale intoccabilità. Cioè del loro potere in generale. Come difatti è avvenuto in una misura e con modalità strabilianti. Recenti rivelazioni legate al caso Palamara hanno illustrato bene quella che ha finito per diventare la realtà del Csm: feroci lotte interne tra le correnti, spartizione spregiudicata degli uffici in base alle simpatie politiche dei candidati, predeterminazione perlomeno tentata dell’esito di alcuni procedimenti giudiziari, corse a piccoli e meno piccoli privilegi di casta (dalla vacanza nell’hotel di lusso al posto allo stadio), collusioni abituali con tutti i poteri della Repubblica. Una realtà di scontri e di piccole miserie umane celata dietro una ferrea difesa degli interessi corporativi opportunamente travestiti sempre da interessi della giustizia.
Se ne può trarre una sola conclusione: è assai difficile che l’Italia riesca ad avere una degna e rinnovata amministrazione della giustizia senza spezzare il circuito infernale del conflitto politica/magistratura, ed è difficile che ciò possa avvenire se non si attua una radicale riforma del Csm. Che però solo la politica può mettere in cantiere.
Sembrerebbe un circolo vizioso se la Costituzione — questa volta molto opportunamente — non avesse previsto un terzo attore, il presidente della Repubblica, che tra i suoi compiti ha anche quello di presiedere proprio il Consiglio superiore della magistratura. È una circostanza importante. Certo, da un lato può indurre a chiedersi come mai nei lunghi anni passati nessun capo dello Stato sia mai intervenuto a richiamare quell’organo alle sue vere funzioni. Ma detto questo, è una circostanza che oggi offre al presidente Mattarella la possibilità di aggiungere al merito per la soluzione della recente crisi politica, anche quello di dare la spinta decisiva per una riforma del Csm. Riforma ormai improcrastinabile ma assai difficile, per tutte le ragioni dette sopra, se essa venisse proposta da una parte politica. Invece, alle eventuali indicazioni e sollecitazioni del capo dello Stato, magari appropriatamente espresse in un messaggio alle Camere — questo strumento così importante della «moral suasion» propria della funzione presidenziale, eppure così inspiegabilmente dimenticato da sempre — alle indicazioni e sollecitazioni del capo dello Stato, dicevo, è difficile che possano essere in molti a dire di no. E l’avvio a soluzione di un problema come quello della giustizia, inutile dirlo, sarebbe un oggettivo e formidabile aiuto al cammino del governo Draghi. Nel Paese sembra essersi aperta tra le forze politiche una fase nuova, non di unità (che sarebbe cosa innaturale e malsana), ma diciamo così di buona volontà: mi sembrerebbe il caso di approfittarne.