19 Settembre 2024

Dal 5 dicembre l’Ue si è unita al bando di Stati Uniti e Gran Bretagna nei confronti di Mosca. Il nuovo ruolo di Turchia, India e Cina

Di regola, la “Vasily Dinkov” fa la spola tra Murmansk e il terminal petrolifero di Varandej, sul mar di Barents. Una rotta relativamente breve. Da alcuni giorni, tuttavia, la petroliera russa di Sovcomflot – della classe superiore tra le navi cisterna-rompighiaccio – ha gettato l’àncora nel porto di Shanghai.
Un viaggio lungo due mesi e più di 12.000 km, tra le acque della Via marittima del Nord che quest’anno si sono ghiacciate prima e più profondamente del previsto. Un viaggio estenuante, scrive il Barents Observer, tra i grandi giacimenti petroliferi dell’Artico russo e il Paese più affamato di energia al mondo. La Cina è il più promettente tra i clienti che Mosca sta corteggiando per compensare la perdita del mercato che fino allo scorso anno assorbiva metà delle sue esportazioni: l’Europa.
A partire dal 5 dicembre, l’Unione Europea si è unita al bando di Stati Uniti e Gran Bretagna. Nessun Paese UE potrà acquistare, importare o trasferire petrolio russo con l’eccezione di quantità limitate esportate via terra a Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca attraverso Druzhba, l’oleodotto “dell’amicizia”, che un tempo aveva in Germania e Polonia le proprie destinazioni principali. Esenzioni sono state ammesse anche per la Bulgaria. Dal 5 febbraio, però, l’embargo si estenderà ai prodotti della raffinazione, a partire dal diesel.

Le contromisure del Cremlino
Con l’obiettivo di coinvolgere altri acquirenti, gli stessi su cui invece la Russia conta per continuare a vendere, alle compagnie europee sarà vietato assicurare o servire anche le consegne dirette a Paesi terzi, extraeuropei.
A meno che questi non accettino di rispettare un limite al prezzo dell’Ural – la principale varietà di petrolio russo – fissato dai Paesi del G7 a 60 dollari il barile: soglia di compromesso che verrà riesaminata ogni due mesi, per il momento giudicata sufficiente a ridimensionare i guadagni con cui il Cremlino finanzia la guerra contro l’Ucraina, senza però destabilizzare eccessivamente i mercati globali.
Questi 60 dollari, in realtà, vanno frequentemente a collocarsi al di sopra del prezzo dell’Ural, meno costoso del Brent: per questo molti osservatori considerano inutile il “price cap”. Che è comunque un tetto che Mosca non intende accettare, per non piegarsi a un diktat dell’Occidente. «Stiamo preparando la nostra risposta – ha chiarito ieri il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov -. Ma una cosa è evidente: non riconosceremo alcun tetto». La decisione di americani ed europei, ha aggiunto, «è un passo verso un’ulteriore destabilizzazione dei mercati mondiali dell’energia».
La guerra iniziata dai russi in febbraio non ha scosso più di tanto, finora, i volumi di produzione e vendite di petrolio russo. Se fino ad agosto Mosca produceva 11 milioni di barili al giorno, l’Agenzia internazionale per l’energia stima un impatto dell’embargo pari a un calo del 17% da qui a febbraio, con un declino fino a 10,2 milioni di barili al giorno in dicembre e fino a 9,5 milioni per febbraio. Per quanto riguarda le vendite, la Russia in ottobre ha esportato via mare e via terra 7,7 milioni di barili al giorno: di questi, 3,95 milioni erano ancora rivolti alla UE.
Ora, calcola l’Aie, il 90% di queste esportazioni ricadrà sotto l’embargo, ma tra gli attori degli scambi una piccola rivoluzione è già avvenuta: mentre rispetto all’anno precedente le esportazioni russe verso la UE calavano di 1,5 milioni di barili al giorno, ancor prima dell’embargo, quelle verso la Cina aumentavano di 225.000 barili al giorno, per un totale di 1,9 milioni; l’India acquistava 965.000 barili in più, per 1,1 milioni totali; la Turchia cresceva di 320.000 barili a 540.000.

Cina, India, Turchia
Mosca conta soprattutto su questi tre Paesi, date le dimensioni ridotte del fabbisogno di altri clienti quali Cuba o lo Sri Lanka. Per sintetizzare il quadro che si presenterà al mercato da qui a febbraio gli analisti stimano in 1-1,5 milioni di barili al giorno la produzione perduta dalla Russia; in 2-3 milioni i volumi di petrolio che cercheranno di cambiare destinazione e clienti.
L’impatto preciso, tuttavia, è difficile da valutare, a causa dell’incertezza sul rispetto delle sanzioni, sulla risposta dei mercati e sulle rotte “alternative” che compagnie petrolifere, trasportatori e assicuratori potrebbero essere disposti a seguire per scambiare petrolio russo a dispetto di tutto. Cambiando bandiera, per gli armatori europei, o mescolando diverse varietà di greggio per nasconderne la provenienza russa.
Quanto al budget, e senza considerare le problematiche relative al gas, è opinione comune che per il momento il Governo russo può stare relativamente tranquillo.
Un tetto dei prezzi del petrolio fissato a 60 dollari il barile non inciderà sui guadagni dello Stato, dal momento che attualmente l’Ural è quotato intorno ai 50 dollari il barile e che la produzione in Russia resta redditizia se può contare su una forchetta di prezzo tra i 40 e i 60 dollari. Il budget del 2023 ha già messo in conto una riduzione del 23,3% delle entrate dovute a petrolio e gas. Dalle esportazioni di petrolio la Russia guadagna ogni giorno una media di 600 milioni di dollari. E’ il motivo per cui Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino, ha criticato il tetto fissato dall’Europa, considerandolo troppo debole per incidere.

Il grande trasferimento
«Il tetto ai prezzi è un meccanismo piuttosto assurdo – osserva da Mosca Konstantin Simonov, direttore del Fondo nazionale per la sicurezza energetica -. Perché ci danneggia un po’ tutti. Con l’eccezione del Giappone, il G7 ha già bloccato le importazioni. Costringendoci a creare un sistema di scambi alternativo: sta iniziando il grande trasferimento di greggio nel pianeta. Gli europei compreranno più petrolio dal Medio Oriente e dall’Africa; i nostri volumi di conseguenza si sposteranno sull’Asia. Un esempio: fino all’anno scorso l’India non comprava praticamente petrolio russo, ora copre il 30% delle nostre esportazioni via mare. Nuovi legami commerciali, nuove regole».

La flottiglia fantasma
Secondo S&P Global Commodity Insights, il “grande trasferimento” è già in corso: le esportazioni di petrolio russo verso l’Asia via mare sono aumentate del 31% circa nei primi dieci mesi dell’anno. Per servire i nuovi mercati dribblando le restrizioni che l’embargo impone agli assicuratori marittimi europei, per il 95% basati a Londra, la Russia si affretta a rinnovare le navi cargo a disposizione, da accompagnare alla flottiglia di “petroliere fantasma” che fanno capo ad armatori disposti a navigare senza copertura assicurativa, e in violazione delle sanzioni.
Navi cisterna senza nome, attualmente in servizio per altri Paesi sanzionati come l’Iran e il Venezuela: Paesi peraltro vicini alla Russia, che ora farà loro concorrenza. Parallelamente, Mosca ha rilanciato e ricapitalizzato la propria compagnia di assicurazione marittima, la Russian National Reinsurance company, con la Banca centrale a farle da garanzia. Non sarà una sfida da poco. Se India e Turchia sembrano aver già riconosciuto i nuovi riferimenti assicurativi russi, la Cina è più prudente: lo è sempre, quando si tratta di violare le sanzioni occidentali e subirne contraccolpi che potrebbero risultare superiori al vantaggio di acquistare petrolio russo a basso prezzo.
Per questo Mosca moltiplica gli sforzi nel corteggiare Pechino, e l’ultimo a farlo è stato nei giorni scorsi Igor Sechin, direttore esecutivo della prima compagnia petrolifera nazionale, Rosneft. Esaltando la cooperazione bilaterale, Sechin ha invitato gli ospiti intervenuti al Russia-China Energy Business Forum a investire ancor più nei grandi progetti petroliferi di Rosneft nell’Artico russo, primo fra tutti Vostok Oil. E non ha risparmiato gli elogi rivolti al presidente Xi Jinping: «A differenza dell’Occidente – ha detto il signore del petrolio russo – la Repubblica popolare cinese opera per l’unificazione dell’umanità».

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