22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Goffredo Buccini

L’emergenza sanitaria sta forse cancellando la lunga stagione dell’incompetenza: non ancora in politica, ma certamente nel paese reale, nella comunità

Il coronavirus ci sta cambiando, più a fondo di quanto crediamo. E forse sta cancellando la lunga stagione dell’incompetenza: non ancora in politica, ma certamente nel paese reale, nelle nostre comunità, tra noi. È plausibile che la politica, prima o poi, seguirà.
Malattia e dolore generano emozioni forti e concrete e, ora dopo ora, bollettino dopo bollettino, vanno smantellando l’emotività virtuale sulla quale era stata costruita la fandonia web dell’uno vale uno nonché l’idea, riecheggiata da William Davies nel suo bel saggio Stati nervosi, che questa emotività da social network dovesse una volta per tutte impadronirsi di cittadini definitivamente scettici verso gli esperti e verso l’esistenza stessa di dati oggettivi. Oggi nessuno sarebbe tranquillo nel farsi curare, non il Covid-19 ma una comune bronchite, da un bravo idraulico che abbia seguito un corso online di pneumologia. E tutti, a prescindere dalle opzioni di voto, aspettiamo come il Graal un vaccino buono a sconfiggere l’epidemia, poco conta se poi qualcuno ci si arricchirà o se risulterà cugino di Big Pharma: preghiamo che la scienza ci salvi.
Naturalmente ogni nazione declinerà a suo modo un simile sconquasso globale, come ciascuna ha avuto in precedenza la sua quota-parte di mitologie complottiste e pseudoscientifiche, dalle cospirazioni della Cia per provocare l’11 Settembre alle spiagge radioattive della Camargue, dagli uomini-lucertola che avrebbero sostituito i veri governanti del pianeta sino alle cinque prove «inconfutabili» che Michael Jackson non è mai morto. Da noi, se l’espressione non suonasse grottesca ove applicata a un movimento che ha fatto della santa ignoranza rousseauiana la propria bandiera, potremmo dire che questo grande spavento da coronavirus, origine del bisogno di certezze tecniche e risposte qualificate, segni il tramonto dell’egemonia culturale dei Cinque Stelle fondata sul broccardo «non ce la date a bere, professoroni» (qualcosa di ben più vasto e resistente nella società del consenso elettorale ormai evaporato e dunque, almeno finora, ancora in cerca d’un nuovo approdo).
Appena due o tre anni fa discutevamo con passione della fine delle competenze e nel dibattito nazionale irruppe il libro pubblicato in Francia da Gérald Bronner, La democrazia dei creduloni: ovvero ciò che stavamo diventando; poiché «credere è molto più economico che ragionare», nel mondo descritto con lucida ironia dal sociologo francese le credenze stavano facendo premio sulla conoscenza e tali credenze sarebbero passate per via diretta — parola magica: disintermediata — dal vertice (capo, leader, elevato che fosse) alla base senza orpelli né truffaldini filtri dei «tecnici» (scienziati, economisti, giuristi e perfino giornalisti, incaricati per mestiere di accertare la plausibilità di una notizia rivolgendosi proprio ai tecnici summenzionati).
Se uno vale uno, tutto vale tutto. E dunque ricordiamo accanto alla tenera epopea delle scie chimiche e della negazione dello sbarco dell’uomo sulla Luna, teorie ben più insidiose come quelle sui rischi derivanti dalle mammografie o quelle che nutrirono il movimento No-Vax, suggestionando tanti genitori in buonafede con l’idea che i vaccini fossero intrugli responsabili di autismo e patologie varie. Tutto in perfetta concordanza con il discredito sparso da Beppe Grillo sulla ricerca e sulla medicina, raccogliendo ed enfatizzando nella liturgia digitale del Blog uno spaesamento collettivo generato certo dal senso di distanza tra la gente comune e le élite dei saperi: «Se tu accedi a un bagaglio di informazioni giuste, puoi fare prevenzione da solo», sosteneva il comico genovese in un volume di dialoghi con Dario Fo e Gianroberto Casaleggio. Un paio di clic sui siti opportuni ed è fatta, sei il primario di te stesso: con una sorta di bricolage dell’erudizione spruzzato di giacobinismo in ragione del quale si potesse dare a un vanto della nazione come Rita Levi Montalcini della «vecchia meretrice» con lo «zucchero filato in testa», bollare una scienziata come Ilaria Capua da «trafficante di virus», trattare un virologo come Roberto Burioni da mentitore nemico del popolo.
Se oggi Burioni si presentasse a un turno elettorale verrebbe probabilmente plebiscitato (e questo forse indica ancora un persistente squilibrio nel paese perché un grande medico non è necessariamente un grande uomo di Stato). È difficile tuttavia non cogliere un senso di risarcimento per noi tutti nell’assistere infine a un dibattito anche aspro, pure da posizioni assai discordi, ma condotto su basi scientifiche, con protagonisti come Burioni, Capua o Maria Rita Gismondo dell’ospedale Sacco. Stabilire dimensione e senso di questa nostra angoscia collettiva non s’attaglia al gracidare degli sciamani web e degli antivaccinisti della domenica. Massimo Adinolfi ha appena ricordato sulFoglio come Grillo, introducendo il suo (giovanissimo) candidato sindaco di Milano nel 2011, sostenesse che «l’inesperienza è un valore aggiunto, perché un ventenne è limpido, non fa intrallazzi, non compra hedge funds». Oggi, alla faccia della disintermediazione, invochiamo lo schermo migliore tra noi e il morbo: un bravo medico che, non suoni pleonastico, abbia studiato medicina. Domani, chissà, quando il morbo sarà sconfitto, potremmo persino desiderare la migliore intermediazione tra noi, il caos delle nostre istituzioni e i sussulti della nostra ammaccata economia: un buon politico che, lontano da Twitter e Facebook, abbia letto qualche libro e seguito quello specialissimo cursus honorum che un tempo si chiamava politica.

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