La sola certezza è che non sarà un negoziato semplice, né breve. Non perché esistano a monte problemi politici — il contrario: la politica mira ad accelerare — ma perché la complessità è soverchiante. Ha dunque una lunga strada davanti a sé la proposta dell’Italia alla Commissione di Bruxelles e al Consiglio dei ministri dell’Unione europea (che rappresenta i governi) di modificare 144 fra traguardi di riforma e altri obiettivi misurabili del Piano nazionale di ripresa. Ce l’ha, in primo luogo, perché questa è la natura dell’esercizio: tutto viene esaminato al microscopio ma, soprattutto, valutato negli effetti concreti.
l precedente spagnolo sta lì a dimostrarlo. Il governo di Madrid ha presentato il suo pacchetto di modifiche in aprile, per assorbire circa 70 miliardi di euro di prestiti del Recovery che non aveva chiesto inizialmente. Grandi applausi: il piano è subito parso esemplare. Nadia Calviño poi, ministra dell’Economia spagnola, è un prodotto della «bolla bruxellese» in quanto ex funzionaria della direzione generale Bilancio della Commissione. Eppure la Commissione stessa, quattro mesi dopo, non le ha ancora dato una risposta formale.
Bruxelles ha fra tre e sei mesi di tempo per valutare il nuovo piano dell’Italia, quindi passerà il suo parere ai comitati tecnici dove sono rappresentati i governi. Probabile dunque che il governo possa vedere una parziale o totale luce verde alle sue proposte di modifica non prima del primo trimestre dell’anno prossimo. Allo stesso modo, bisogna che tutto vada estremamente liscio perché le dieci richieste di cambiamento degli obiettivi di metà 2023 permettano a Bruxelles di versare i 16,5 miliardi della quarta rata entro l’anno: possibile, niente affatto scontato.
Inoltre la riscrittura complessiva del piano, vista da Bruxelles, richiede ben più del documento di 152 pagine che il governo ha diffuso finora. Poiché i regolamenti del Pnrr dicono che le modifiche sono possibili solo per ragioni «oggettive», ognuna delle 144 novità del piano avrà bisogno di una decina di pagine di motivazioni: molto più dei pochi paragrafi presentati finora. Per esempio l’Italia dovrà spiegare che i nuovi piani di indipendenza energetica sotto le insegne di “RePowerEU” rispettano i severi principi ambientali del Pnrr. Non sarà facile: è probabile che almeno i progetti sul gas naturale resteranno fuori e verranno finanziati a parte.
Ma a favore dell’Italia giocano fattori diversi. Nello specifico, dopo le incomprensioni e maldicenze reciproche dei primi mesi, il rapporto fra i gruppi di lavoro di Roma e Bruxelles sembra migliorato. E la grande politica non si mette certo di traverso. Nella Commissione, la presidente Ursula von der Leyen appare troppo presa dalla sua rielezione attesa a metà 2024 per voler creare problemi a Giorgia Meloni, che dovrebbe votarla nel Consiglio europeo. Quanto ai governi, la Francia e soprattutto la Germania sono troppo assorbite dai loro problemi interni per voler creare attrito con l’Italia proprio ora.
Non per questo sta passando inosservato che il Pnrr italiano prevede modifiche anche sulle riforme. In alcuni casi, come sulla digitalizzazione dei fascicoli giudiziari, il governo propone di fare persino più del previsto. Ma in altri l’asticella si abbassa. È il caso della giustizia civile, dove in sostanza il governo annuncia che l’Italia mancherà l’obiettivo di ridurre l’arretrato del 65% entro il 2024 e del 90% entro il 2026. L’esecutivo sottolinea come stia fallendo il tentativo del governo precedente di assumere più personale negli uffici del processo: moltissimi hanno vinto i concorsi ma poi hanno lasciato, perché un contratto di soli tre anni non convince. Eppure manca per ora nella proposta di modifica del Pnrr da parte del governo qualunque idea su come intervenire nei 45 Tribunali italiani (su 140) già chiaramente individuati all’origine dei ritardi.
Allo stesso modo farà discutere a Bruxelles il passo indietro nella lotta all’evasione. Non tanto per il progetto di permettere a tutte le imprese, non solo alle più grandi, di evitare problemi penali se riportano al fisco questioni dubbie (l’«adempimento collaborativo»): in questo, le critiche partite dal Pd sulla legge delega fiscale sembrano infondate. Piuttosto, la proposta nel «nuovo» Pnrr di rinunciare a ridurre la propensione all’evasione del 5% nel 2023 e del 15% nel 2024 viene motivata in modo molto debole: il governo sostiene che le imprese sarebbero «in crisi di liquidità», mentre per il resto del tempo sottolinea che l’economia italiana in realtà va molto bene.
Qualche passo indietro nelle riforme c’è anche sulla digitalizzazione come canale per semplificare le procedure amministrative, mentre si rafforzano invece le semplificazioni della burocrazia sulle attività produttive e l’energia. Del resto anche cercare di cambiare le riforme è un modo per ricordare che, nel Pnrr, ci sono anche quelle. E non si possono spazzare sotto al tappeto.