Con il passare delle settimane si profila una ragione che induce il governo a prendere tempo, prima di proporre una revisione del Pnrr: non contano solo i nuovi progetti da far entrare nel Piano nazionale di ripresa, ma anche i vecchi che dovrebbero uscire per far posto ai primi. Nel governo non si esclude che la proposta di revisione, attesa entro il 31 agosto, riguardi più del 10% degli investimenti e dunque oltre venti miliardi di euro. Probabilmente alla fine l’impatto sarà minore, ma la riscrittura del Piano farà dei perdenti. Non a caso l’intero processo è avvolto nella segretezza: nessun soggetto coinvolto vuole trovarsi declassato all’uso dei fondi europei tradizionali, che rischiano di implicare processi amministrativi diversi e nuovi ritardi.
Gli espulsi dal Pnrr
I nomi dei perdenti — gli espulsi dal Pnrr — domineranno il confronto in Italia da settembre. Anche per questo per esempio l’Associazione nazionale comuni italiani ha fatto sapere che sono già aggiudicati il 91% dei bandi del Piano che la riguardano: il messaggio — implicito — è che il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto non avrebbe motivo di colpire i sindaci, perché i loro progetti procedono puntuali. Resta dunque da capire dove cadrà la scure e almeno un candidato oggi si sta delineando: nel governo oggi non si esclude di tagliare dal Pnrr il finanziamento da un miliardo per nuovi impianti, alimentati a metano o idrogeno, per la produzione di acciaio «verde» a Taranto. Da ambienti dell’esecutivo si osserva che c’è una valutazione in corso e che il sequestro di parte degli stabilimenti — in realtà, solo la vecchia area di produzione a caldo — non semplifica certo il quadro.
Autorizzazione d’impatto ambientale
L’ipotesi allo studio prevede di spostare il finanziamento del progetto per l’acciaio pulito sul fondo europeo di sviluppo e coesione, cioè sugli aiuti tradizionali di Bruxelles. Il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci (Pd) non è d’accordo ed è decisamente allarmato: Se perdiamo il miliardo di euro del Pnrr destinato alla decarbonizzazione dell’ex Ilva – dice – l’intera fabbrica è destinata a chiudere». Quanto a lui, ha già scritto al ministro delle Imprese Adolfo Urso e a quello dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin per avvertire che, senza Pnrr, in agosto non rinnoverà l’autorizzazione d’impatto ambientale degli impianti di Taranto. «Senza una conversione nei tempi più rapidi possibile alla produzione verde, non saremo più in grado di tenere aperti gli impianti nei prossimi anni: sono ormai obsoleti».
La produzione di acciaio
La posta in gioco è colossale per il Paese. Solo a Taranto Acciaierie d’Italia ha una capacità produttiva di dieci milioni di tonnellate di acciaio l’anno, quasi metà di una produzione italiana che resta comunque insufficiente per la domanda industriale del Paese. In Europa e probabilmente anche in Italia la sola produzione di acciaio è responsabile del 5% delle emissioni a effetto-serra, dunque il miliardo del Pnrr destinato all’ex Ilva è il più grande progetto di decarbonizzazione mai visto in Italia: di gran lunga quello a maggiore impatto. L’ulteriore declino e la chiusura degli impianti avrebbero poi conseguenze economiche e sociali impossibili da sottovalutare. A Taranto l’ex Ilva occupa 12.500 persone, a cui vanno aggiunte oltre mille della vecchia amministrazione straordinaria e molte migliaia dell’indotto. Senza quegli impianti l’Italia scivolerebbe in un deficit commerciale con l’estero così profondo, su un materiale strategico come l’acciaio, da non avere paragoni con nessun’altra economia industriale.
Bandi e progetti
Ora i tempi per decidere sono stretti. I bandi per gli impianti «verdi» sono lanciati da tempo da parte di Dri d’Italia, la società del ministero dell’Economia (attraverso Invitalia) che una legge del novembre 2022 riconosce come soggetto attuatore del Pnrr per la decarbonizzazione del ciclo dell’acciaio. I fornitori in corsa sono la fiulana Danieli e la tedesca Paul Wurth, unici due fornitori industriali al mondo di questa tecnologia. A inizio agosto è attesa l’aggiudicazione, ma per ora l’attore che collabora meno al progetto è la stessa Acciaierie d’Italia: ArcelorMittal, azionista di controllo al 62% (con Invitalia al 32%), continua a sollevare ostacoli alla decarbonizzazione di Taranto.
Il trasferimento a fondi europei ordinari
Accusa il sindaco Melucci: «ArcelorMittal si comporta da speculatore: assorbe tutti i sussidi italiani che può ottenere, ma punta a ridurre al massimo la produzione di Taranto per tenere alto il prezzo dell’acciaio dei suoi altri impianti europei». Di certo non è nota alcuna convocazione degli azionisti di controllo indiani a Palazzo Chigi, né alcun piano per metterli in minoranza nel gruppo. Appare in salita anche il progetto di trasferire il piano di decarbonizzazione sui fondi europei ordinari. In primo luogo manca il consenso — indispensabile — della regione Puglia. Inoltre con il Pnrr Taranto avrebbe i nuovi impianti già nel 2026, mentre un rinvio delle gare farebbe scivolare il progetto in avanti di molti anni perché le liste d’attesa per le forniture di Danieli e Paul Wurth sono lunghissime, con domande da tutto il mondo. Così l’idea di cambiare il Pnrr, per renderlo più efficiente, si rivela ogni giorno più semplice sulla carta che nella realtà.