Il tempo degli annunci è finito. È ora che la riforma complessiva della giustizia italiana prenda le sembianze di un testo meditato da discutere in Parlamento
Ci risiamo. Trent’anni (e passa) dall’inizio di Tangentopoli e si è tornati in un battibaleno all’arroventata tenzone tra Politica e Giustizia. Si sa come comincia e si sa anche come va a finire (quantomeno come è andata a finire fino ad oggi): con la Politica fatta a brandelli. Il segnale di inizio è sempre lo stesso: due, tre (ma anche quattro, cinque, sei) iniziative giudiziarie — ad ogni evidenza slegate una dall’altra — contro un esponente della maggioranza; a quel punto la Politica perde il lume della ragione e denuncia il «complotto». Quella denuncia ha un effetto immediato: spuntano da ogni dove nuovi magistrati che, resi baldanzosi, si applicano alla messa sotto torchio di altri esponenti della maggioranza. Il governo preso dal panico non esita in tale frangente a mostrare tutta la propria fragilità procedendo dapprima a un cambio di ministri e sottosegretari, poi ad un più radicale rimpasto, per andare infine a infrangersi sugli scogli. Dopodiché panico sui mercati, e giunge l’ora dei governi tecnici ai quali si «rassegnano» anche i partiti che hanno perso le elezioni. Governi presieduti da figure di prestigio — fin qui sempre uomini — allo scopo di «evitare il dramma della fine anticipata della legislatura» e affrontare una qualche «grave emergenza» (che non manca mai).
In seguito, si vivacchia — talvolta non male — fino alle successive elezioni politiche. Il risultato che verrà fuori dalle urne sarà salutato con giubilo dai vincitori. Ma sarà un’illusione. Qualche cambio negli enti pubblici e alla Rai, poi è sufficiente lasciar trascorrere pochi mesi e si ricomincia con il copione di sempre.
Ha notato Massimo Franco su queste pagine che la voglia di resa dei conti con la magistratura, che la scomparsa di Silvio Berlusconi avrebbe dovuto archiviare, «sopravvive a destra come un’onda tossica». E impedisce di analizzare con freddezza decenni nei quali «berlusconismo e giustizialismo in realtà si sono alimentati e legittimati a vicenda impedendo qualsiasi reale riforma». Anche adesso che quella riforma è stata annunciata in campagna elettorale, descritta e approvata dai votanti nei suoi tratti essenziali, affidata nelle mani di un giurista sperimentato come Carlo Nordio, stimato dai più, che ancora ieri un suo presumibile avversario politico, Massimo Cacciari, definiva «magistrato intelligente… uno dei migliori che ho incontrato».
Questa allora potrebbe essere la volta buona per la riforma. L’assenza di «cospirazione» e di «regia» dietro le iniziative giudiziarie contro esponenti di governo si coglie più nettamente di quanto fosse riscontabile nei trent’anni alle spalle (quando pure — ripetiamo — non è storicamente accertato ci siano state né «cospirazione» né «regia»). Le toghe si muovono in ordine sparso, spesso contraddicendosi l’una con l’altra. I media si limitano a dare notizie di cui vengono in possesso, in un regime di normale concorrenza giornalistica, quasi sempre rinunciando ad enfatizzare i propri scoop.
Il Quirinale poi — come fu già nel 2001 ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi — mostra piena consapevolezza del fatto che l’attuale maggioranza è frutto del risultato di regolari elezioni. Il Capo dello Stato non dà segni di preparare «reti» in vista di un eventuale collasso del governo presieduto da Giorgia Meloni. Anzi, se può chiude un occhio. Un esempio? Sergio Mattarella avrebbe potuto far filtrare la notizia d’aver «alzato il sopracciglio» per il fatto che Ignazio La Russa si sia lasciato sfuggire quell’impropria dichiarazione assolutoria nei confronti del figlio (poi corretta) mentre il Presidente della Repubblica era in viaggio in America Latina e, di conseguenza, lui, La Russa, a Palazzo Madama si trovava ad essere il più alto rappresentante dello Stato in territorio italiano.
A questo punto il discorso non può che tornare su Nordio. Che aspetta il ministro a presentare la sua riforma? Comprensibile che abbia dovuto mettere d’accordo le componenti della sua maggioranza, ma i mesi trascorsi dal 25 settembre per uno come lui che ha scritto libri interi sulle caratteristiche che dovrebbe avere quella riforma, sono troppi per non aver ancora offerto una proposta scritta ai suoi interlocutori. È intollerabile che qualcuno possa proporre, a suo nome, novità rivoluzionarie tipo la «divisione delle carriere come ritorsione per una qualche indagine sul Twiga o altre cose del genere. Senza contare il fatto che l’annuncio di un riordino dell’intero sistema Giustizia senza che se ne possa adeguatamente discutere in Parlamento, incoraggia le iniziative più estemporanee di magistrati che tendono a interpretare le indicazioni provenienti dalle loro associazioni di categoria e adesso persino dall’Europa.
Nordio è partito per la non facile impresa che gli è stata assegnata avendo dalla sua un’ampia maggioranza (pur con qualche settore recalcitrante), moltissimi sindaci del Pd, gran parte del Terzo polo, ampi strati della magistratura, che aspetta? Non si rende conto che ogni nuova indagine — e ce ne saranno — rischia di ingenerare il sospetto che l’introduzione di qualche pur sensata norma serva a favorire questo o quell’imputato? Il tempo delle interviste e delle dichiarazioni estemporanee è finito. Adesso è giunta l’ora che la riforma complessiva della giustizia italiana prenda le sembianze di un testo meditato da discutere in Parlamento.