Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
L’adesione di Salvini ai referendum dei Radicali apre nuovi scenari nella destra, ma anche nel centro e nella sinistra. E sulla riforma Cartabia si potrebbero spaccare i Cinque Stelle
È bastato l’annuncio per scatenare un maremoto. Con onde alte che minacciano di abbattersi sui fragili equilibri della politica italiana. La raccolta delle firme dei referendum radicali sulla Giustizia appoggiati dalla Lega non è ancora partita ma ha già innescato movimenti trasversali forse destinati a rimescolare diverse carte a destra, a sinistra e al centro. In parte ha contato la scelta dei tempi: la magistratura non gode più del consenso incondizionato dell’opinione pubblica. In parte ha contato, e conta, il metodo: quella capacità di stabilire alleanze trasversali su specifiche battaglie politiche di grande rilievo che il Marco Pannella dei suoi dì migliori ha lasciato in eredità ai radicali. Ricordiamo che i sei quesiti referendari depositati in Cassazione sono espressione del «liberalismo giudiziario» che ispira i radicali e riguardano la responsabilità dei magistrati, i meccanismi di elezione del Consiglio superiore della magistratura, la limitazione della custodia cautelare, la separazione delle carriere, il ruolo dei componenti non togati(come gli avvocati) nei collegi giudiziari, l’abolizione di alcune norme della legge Severino in materia di ineleggibilità.
Per capirne meglio le implicazioni, conviene separare gli aspetti della questione che hanno a che fare con le contingenti tattiche e strategie dei partiti dagli aspetti che riguardano gli «equilibri di sistema», lo stato presente e futuro della democrazia italiana. Sposando la campagna referendaria radicale Salvini ha fatto una mossa tatticamente molto abile. Costringerà l’intero centrodestra a subire la sua leadership in materia di rapporti fra politica e magistrati. L’iniziativa radicali/Lega, inoltre, funge da calamita per tutta la (frammentatissima) area centrista, da Italia viva all’Udc, al gruppo Bonino eccetera. Per giunta, come si è già visto, essa mette in grande difficoltà il Partito democratico.
Per quanto riguarda la Lega bisognerà capire se si tratta solo di tatticismo. O se invece siamo in presenza di qualcosa che si avvicina a una riconversione strategica. È evidente che il «progetto lepenista» di Salvini ha mostrato la corda. La concorrenza di Fratelli d’Italia, soprattutto al Sud, lo obbliga a rifare i suoi conti. Sia in termini di posizionamento all’interno del centrodestra sia in termini di alleanze in Europa. Vedremo nei prossimi mesi se alla scelta di appoggiare l’iniziativa referendaria dei radicali corrisponderanno da parte di Salvini mosse conseguenti, come, per esempio, la ricerca di nuove alleanze nel Parlamento europeo.
Nel frattempo l’effetto più dirompente è quello che si sta abbattendo sul Pd. Da Goffredo Bettini ad altri importanti esponenti di quel partito sembra piuttosto ampio il fronte di coloro che intendono appoggiare i referendum radicali. Il segretario e, sicuramente, una buona parte del partito, sono contrari. Gli argomenti che usano sono deboli. Si va dal classico «non dobbiamo fare il gioco di» all’altrettanto scontato «la riforma della giustizia si deve fare in Parlamento»: come se in Parlamento, nella stessa maggioranza che sorregge il governo, non ci fossero molti nemici della suddetta riforma e come se i referendum non fossero — come invece sono — un utile strumento di pressione.
È la storia a spiegarci il perché di tale opposizione. Il Pd e i suoi predecessori (Pci, sinistra democristiana, Pds, Ds) sono sempre stati schierati con il «partito delle procure». Anche se con qualche insofferenza ideologica da parte degli eredi di Togliatti, di coloro che, come Massimo D’Alema, credono nel primato della politica, Pd e predecessori non hanno mai rotto con il giustizialismo giudiziario. Per convenienza, per garantirsi un salvacondotto e perché, anche se di tanto in tanto veniva colpito qualche loro esponente, i colpi giudiziari più duri riguardavano comunque i loro avversari. È un segno dei tempi, ossia del fatto che forse la stagione del giustizialismo trionfante è ormai alle nostre spalle, che l’iniziativa referendaria apra un conflitto all’interno del Pd.
Non si esagera se si dice che il futuro della democrazia italiana dipende da come verranno affrontati i nodi della giustizia. In primo luogo bisogna sapere che se il governo Draghi tra qualche mese cadrà (con conseguenze imprevedibili), esso, quasi certamente, cadrà proprio sulla questione giustizia. È sulla riforma Cartabia che, presto o tardi, si spaccheranno i 5 Stelle: dopo di che, si tratterà di vedere se la loro fazione filogovernativa sarà oppure no abbastanza numerosa da non far mancare al governo il sostegno parlamentare.
Sorte del governo a parte, si pensi a che cosa potrebbe accadere quando si cominceranno a spendere i soldi del Recovery Fund. Immaginiamo lo scenario peggiore. Poniamo che, per una combinazione di normative confuse e di eccessi di protagonismo di alcune procure, in quel momento fioriscano le inchieste e fiocchino gli avvisi di garanzia, gli arresti, eccetera, bloccando tutto o quasi. Poi,facilmente, come spesso avviene, dopo qualche anno la maggioranza degli imputati verrebbe assolta. Nel frattempo, l’Italia avrebbe, però, sprecato la più importante occasione di sviluppo che le sia mai capitata dai tempi del piano Marshall e si troverebbe nei guai.
È il non detto della politica italiana, il tabù su cui quasi tutti glissano. Ci fu un tempo — la si chiamasse Repubblica dei partiti oppure partitocrazia — in cui la politica comandava e i magistrati erano dominati e controllati. Ci fu poi, con Mani Pulite, un rovesciamento dei ruoli: i magistrati occuparono il ponte di comando. Poterono farlo perché la corruzione politica aveva in precedenza superato il livello di guardia. Da allora viviamo in un regime di democrazia giudiziaria che ha assunto il controllo della politica rappresentativa, l’ha posta in libertà vigilata. Siamo passati da una condizione di squilibrio a una condizione di squilibrio di segno opposto. Entrambe le situazioni (la partitocrazia prima, la democrazia giudiziaria dopo) hanno aspetti illiberali o autoritari.
Ci saranno tensioni crescenti e durissime contrapposizioni. Ma se alla fine si ottenesse un ragionevole equilibrio, una condizione in cui siano salvaguardate tanto l’indipendenza dei magistrati quanto le prerogative della politica rappresentativa, ecco che allora forse nascerebbe qualcosa di nuovo: qualcosa di somigliante a una democrazia liberale.