16 Settembre 2024
Immigrazione

Immigrazione

I valori in cui crediamo dicono chi vorremmo essere. I compromessi che costruiamo sul campo dicono chi siamo. Sarà il nuovo Piano per il Mediterraneo a rivelare qualche strada prenderà la Ue

Governare i flussi migratori è una necessità del nostro tempo. Lo è quanto affrontare la crisi climatica. E i due piani non sono distinti: presto andranno a sovrapporsi fino a confondersi, perché diventerà impossibile differenziare chi si sposta perché perseguitato politicamente (e ha quindi diritto all’asilo) da chi lo fa perché la terra d’origine è diventata invivibile (e quindi a quell’asilo non avrebbe diritto). Come se non bastasse, i nostri interlocutori in questo intreccio sono spesso regimi autocratici. Cosa che indirettamente dimostra, nonostante i quasi due decenni di declino descritti nei rapporti della Freedom House, che i sistemi democratici funzionano comunque meglio. Chi fugge – verso le nostre democrazie inceppate come le conosciamo e descriviamo – lo fa da Stati assieme illiberali e inefficaci. E dunque quanto ha senso, in questo doppio assedio, perseguire compromessi con i leader di Paesi che non hanno – e non sembrano voler avere, anzi – i nostri stessi standard di rispetto delle libertà individuali e collettive? Come decidere se fini (buoni) giustificano costi (alti) da pagare?
La questione si è posta in totale trasparenza durante la missione in Tunisia della premier italiana Giorgia Meloni con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Le due rappresentanti di un Paese e di un’istituzione ad alto tasso di democrazia hanno cercato di proporre un’intesa a Kais Saied, presidente di uno Stato che sembra destinato a chiudersi in un recinto dittatoriale dopo aver respirato il vento di una primavera araba precoce (era il dicembre 2010) e promettente (forse più di tutte le successive). Eletto nel 2019, Saied ha imposto lo stato d’emergenza, sospeso il Parlamento, riscritto la Costituzione, silenziato media e dissenso. Meloni e von der Leyen hanno messo sul tavolo uno scambio tra più controlli alle frontiere e più contributi economici (per un miliardo di euro in investimenti e commerci, oltre a 10 milioni riservati a studenti all’interno del programma Erasmus). Sono state, in parte, respinte. Per «mancanza di umanità» come ha rinfacciato loro, con uno sberleffo, proprio l’uomo che pare ormai correre su un binario repressivo (in)degno dei record negativi dell’epoca Ben Ali.
Ma esiste una strada percorribile tra «un velleitarismo puerile» – mai accordi in queste condizioni – e «un realismo straccione» – curiamo i nostri affari e via in fretta?
Come ha scritto Luigi Manconi, in un editoriale su Repubblica, «procedere diversamente» deve essere possibile. Dobbiamo dunque prima immaginare e poi applicare «una linea di condotta» che ci permetta di affrontare quello che verrà e che solo in parte già vediamo. Per l’Europa questo significa costruire una politica estera, non solo emergenziale, che non “salti” a piedi uniti (o disuniti) il gradino di un’agenda condivisa sui diritti umani.
Quello che non funzionerà, e già non funziona più, è una strategia improntata alla reazione: all’espressione di «profonda preoccupazione» e – ogni tanto – di «ferma condanna» a disastri avvenuti. Avishai Margalit, filosofo a Gerusalemme e Princeton, ha tracciato il confine – che esiste – tra i compromessi e i compromessi “ rotten “, “sporchi”, marci, corrotti. I secondi sono quelli che generano o mantengono in vita un regime disumano. I primi quelli che ci fanno «procedere diversamente». Perché, sostiene il professore, dovremmo essere giudicati più dai nostri compromessi che dai nostri ideali. «Gli ideali ci possono dire qualcosa di importante su come vorremmo essere. Ma i compromessi ci dicono chi siamo». Sarà il nuovo Piano per il Mediterraneo a rivelare se l’Europa sia (o no, non ancora) in grado di muoversi, più unita e influente, in questa direzione.

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