16 Settembre 2024
Palazzo Montecitorio Parlamento

Palazzo Montecitorio Parlamento

Un’esperienza sul campo, nelle aziende, all’estero, nella grande finanza, nelle grandi università, non è in antitesi con la politica; è la forma moderna della politica

Dagli umori di Montecitorio, e dalle interviste dei veterani — De Mita, Formica — che hanno avuto la fortuna o la condanna della longevità, emerge un tema: lo scontro tra politica e tecnocrazia. Un tema interessante, ma a volte mal posto. La diffidenza dei parlamentari verso i «tecnici» non è immotivata. Molti tra loro hanno memoria del tempo in cui esistevano le sezioni di partito, le scuole di partito, i giornali di partito. Ma quel tempo è passato, e non tornerà. Oggi i partiti sono fatti da correnti e comunità mediatiche. Che vanno rispettate; ma non esauriscono il campo della politica. Andare in Germania a presiedere la Banca centrale europea e dire no alla Bundesbank, difendendo la moneta unica — come ha fatto Mario Draghi —, significa fare politica. Reggere la Farnesina, dalle unità di crisi al governo delle ambasciate — come ha fatto Elisabetta Belloni —, significa fare politica. Politica intesa nel modo moderno — relazioni internazionali e gestione delle crisi — che è stato di Carlo Azeglio Ciampi, che portò l’Italia nell’euro, e di Mario Monti, che a suon di multe milionarie fece rispettare alla Microsoft di Bill Gates le regole dell’antitrust.
Il parlamentare semplice, insomma il peone, insultato sui social e blandito dai clientes, sorvolato dai voti di fiducia e irriso dai giornali, va compreso. Questi giorni rappresentano il suo riscatto: il capo dello Stato lo sceglie lui; non i mercati, i tedeschi, il Financial Times. Giusto: finché l’elezione non sarà affidata ai cittadini, funziona così. Ma anche il parlamentare semplice avverte quello che il presidente della Puglia Michele Emiliano nella sua apparente naïveté chiama «il fiato del Paese», e che Simone de Beauvoir chiamava «la forza delle cose». Non è vero che gli italiani siano contro la politica, anzi, l’elezione del presidente della Repubblica è sentita come un momento solenne, apicale. Proprio per questo l’impreparazione dei partiti, la manfrina dei veti incrociati, financo la burla dei voti per Terence Hill e Nino Frassica è vissuta come una ferita, una mancanza di rispetto, un’offesa al senso dello Stato e all’amor di patria, al lavoro e al risparmio (il Parlamento nasce per decidere come spendere le tasse versate dai cittadini).
Non esiste e non è mai esistito un muro tra la politica e la società, l’economia, la vita. Wilson, il presidente che fece vincere all’Intesa la Grande Guerra, era il rettore di Princeton; Reagan, il presidente che fece vincere all’Occidente la guerra fredda, era un attore. De Gaulle era un generale, il suo primo ministro e successore Pompidou era un banchiere. Il primo presidente della Repubblica eletto per sette anni, Luigi Einaudi, non era uomo di partito; era un professore di scienza delle finanze dell’università di Torino, che un giorno si vide entrare in ufficio il figlio di un droghiere, venuto a chiedergli un articolo per la sua piccola rivista, specificando che non poteva pagare. Un barone di oggi l’avrebbe messo alla porta. Einaudi rispose: «Certo, volentieri, mi dica la lunghezza che le serve». La rivista era «La rivoluzione liberale», il figlio del droghiere si chiamava Piero Gobetti; gli restavano pochi anni di vita, segnati dalle bastonature dei fascisti.
Guardiamo ai partiti che si fronteggiano oggi in Parlamento. La Lega è stata fondata da un uomo che ha festeggiato per tre volte una laurea in medicina che non ha mai preso; eppure il fiuto politico di Umberto Bossi è fuori discussione, basta fare una passeggiata in Transatlantico per toccare con mano la venerazione dei leghisti e il rispetto degli avversari. Il partito democratico è stato fortemente voluto da un professore di Bologna, Romano Prodi, a lungo osteggiato dai politici di professione. Forza Italia è stata fondata ed è tuttora guidata da un letto d’ospedale dal padrone delle tv (e un tempo del Milan). Poi, certo, i più bravi nella manovre sono i giovani cresciuti nei partiti, da Giorgia Meloni a Matteo Renzi. Ma tutto questo conferma che la dicotomia tra politica e tecnica, tra Palazzo e società, è superata dai fatti.
Oggi — per resistere alla tecnofinanza, ai padroni della Rete, all’inflazione, alle autocrazie, alla fuga delle multinazionali e dei grandi patrimoni nei paradisi fiscali — i politici venuti dal Parlamento e dai partiti e i politici formatisi nelle istituzioni finanziarie e diplomatiche devono lavorare insieme, completarsi a vicenda. Un’esperienza sul campo, nelle aziende, all’estero, nella grande finanza, nelle grandi università, non è in antitesi con la politica; è la forma moderna della politica, che poi si traduce nella capacità di risolvere i problemi. Basti vedere le facce incredule con cui in questi giorni si guardano attorno, tra i fregi del Palazzo romano, i presidenti di Regione. Non potrebbero essere più diversi: giovani democristiani come Cirio, vecchi comunisti come De Luca, missini come Musumeci, socialisti come Giani, ulivisti come Bonaccini, leghisti come Zaia, Fontana, Fedriga. Tutti eletti dai cittadini, tutti che dicono la stessa cosa: diamo agli italiani un presidente cui ognuno possa guardare con rispetto, senza badare alle tessere di partito e senza perdere altro tempo e la residua dignità.

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