L’eventuale ballottaggio toglierebbe anche molti argomenti alla tesi della «deriva autoritaria»
Non si può davvero contestare la legittimità del tentativo che l’attuale maggioranza e la premier Giorgia Meloni stanno facendo per cambiare la seconda parte della Costituzione, quella che fissa le regole di funzionamento del nostro sistema democratico. Le accuse di autoritarismo si sprecano.
Eppure nei passati quarant’anni ci hanno provato, in vari modi, il socialista Craxi, il liberale Bozzi e il democristiano De Mita, la comunista Iotti e il post-comunista D’Alema, Berlusconi, Bossi e Fini, così come il democratico Enrico Letta e il centrista Gaetano Quagliariello, e infine Renzi. Chi ci prova oggi non è figlio di un Dio minore: gode di uguale legittimità democratica, ottenuta tra l’altro con un ampio e maggioritario mandato elettorale.
Non si può neanche dire che la riforma che propone la destra sia solo frutto di volontà di potenza, e non origini invece da una effettiva necessità di ammodernamento del sistema e di rafforzamento dell’esecutivo. C’è chi dice: ma insomma, il governo Meloni è la dimostrazione che si può avere un premier forte anche così, senza cambiare la Costituzione. In realtà, proprio l’eccezione attuale ci conferma la necessità di renderla norma. La premiership di Meloni appare infatti «forte» per la semplice ragione che la sua coalizione ha vinto nettamente le elezioni e i partiti che la compongono non se la sentono (ancora?) di indebolirla in Parlamento. Ma: a) non sappiamo quanto durerà; b) non possiamo dimenticare che negli undici anni precedenti, dal 2011 al 2022, il sistema politico-elettorale in vigore non è invece riuscito a produrre governi stabili e duraturi e ha dovuto cercare soluzioni creative e provvisorie; c) non potremo contare sempre su capi dello Stato saggi come Mattarella, capaci di risolvere le crisi di sistema servendo l’interesse nazionale, prima o poi ci capiterà un presidente non così super partes e saranno guai.
Dunque la riforma è legittima e per molti aspetti necessaria. E il guasto creato da chi, pur di opporsi, contesta queste due verità sta nel fornire così un formidabile alibi alla maggioranza per non sciogliere i nodi veri della sua proposta, finora rivelatisi inestricabili, e rimasti tali anche ieri nel convegno-convention a Montecitorio. Perché, se è chiaro che vogliono un premier eletto, non è affatto chiaro come intendano eleggerlo (e neanche come pensano di eleggere i parlamentari).
Nel testo giunto in aula al Senato, infatti, non si dice quanti voti servano perché si possa stabilire che il premier è stato eletto dalla maggioranza degli italiani, né che cosa accade se nessuno raggiunge quel numero di voti.Manca insomma la fissazione di una soglia minima per far scattare il premio di maggioranza che garantisce al premier eletto di avere i numeri in Parlamento; soglia giudicata già in due sentenze della Corte Costituzionale indispensabile per la legittimità di una qualsiasi legge elettorale. E manca il ballottaggio: l’unico modo conosciuto in cui, nel caso che nessuno superi la soglia, gli italiani possano decidere in un secondo turno a chi consegnare il governo (a meno che non si preferisca tenere elezioni a oltranza finché qualcuno non ce la fa al primo turno, ricetta sicura per il caos).
Finora il mantra della ministra Casellati è stato il seguente: le legge elettorale viene dopo. Ma la soluzione del ballottaggio, con il quale in un’unica scheda si decide del premio e dunque della composizione di entrambe le Camere, non potrebbe non stare in Costituzione; perché oggi la Carta prevede due Camere totalmente autonome con due diversi metodi di elezione, e una legge elettorale da sola non potrebbe smentirla.
Capisco che dei dettagli non si cura il pretore, e che non sono argomenti di grande presa popolare. Però così stanno le cose: se il testo non verrà modificato alla Camera, la riforma resterà impraticabile. E allora anche questo tentativo sarà servito ad animare una stagione politica e alzare una bandiera elettorale, ma a nient’altro.
(P.S. Il ballottaggio toglierebbe anche molti argomenti alla tesi della «deriva autoritaria»: il doppio turno è infatti il sistema che garantisce la vittoria a chi supera il 50% dei voti espressi, è già in funzione nei Comuni, e la sinistra lo preferisce fin dai tempi della Bicamerale D’Alema. Tutti fatti che potrebbero tornare utili nel caso, più che probabile, di una battaglia referendaria).