Il 4 giugno i maggiori produttori di petrolio riuniti nell’Opec+ hanno raggiunto un accordo per estendere i tagli alla produzione fino a fine 2023 e a tutto il 2024, fissando a 40,4 milioni di barili al giorno il nuovo target di produzione di petrolio per il 2024. Mentre l’Arabia Saudita prorogherà il suo taglio volontario di 500 mila barili al giorno. Come insegna una delle regole fondamentali del mercato, si diminuisce l’offerta (in questo caso con i tagli alla produzione) per spingere i prezzi del petrolio al rialzo. Invece, dopo i picchi di 120 dollari al barile, subito dopo l’inizio della guerra in Ucraina, nel febbraio 2022, oggi le quotazioni del greggio tornano a scendere.
A metà mattina, il Brent con consegna ad agosto perde lo 0,54% ,a 75,87 dollari al barile, e anche i future con scadenza a luglio del petrolio americano Wti indicano un prezzo in discesa a 71,37 dollari al barile (-0,54%), dopo aver chiuso martedì in calo di 41 centesimi (-0,57%), a 71,74 dollari al barile. Manca, insomma, quella spinta ai prezzi che «in tempi normali» un taglio alla produzione dell’Opec avrebbe garantito.
Che cosa sta succedendo? Che cosa sembra sovvertire anche i principi fondamentali della domanda e dell’offerta? Il fatto è che questi non sono più «tempi normali» da parecchio. E quella che a qualcuno appare «una partita a scacchi» tra i Sauditi e i Paesi consumatori di petrolio, in realtà, riflette la straordinaria incertezza che domina sui mercati, a causa dell’alta inflazione e del rialzo dei tassi di interesse da parte delle banche centrali per combatterla, ma anche per le tensioni geopolitiche innescate dalla guerra in Ucraina e dagli attriti crescenti tra Stati Uniti e Cina.
Andiamo con ordine. Sottovalutando il ritorno dell’inflazione, definita per molti mesi un fenomeno transitorio, le banche centrali sono state costrette a una stretta monetaria molto più aggressiva, portando i tassi di interesse da zero o negativi al 3,75% in Europa (ma la presidente Christine Lagarda ripete che i rialzi non sono ancora finiti) e oltre il 5& negli Stati Uniti, ai livelli che non si vedevano da oltre 10 anni. L’aumento del costo del denaro frena gli investimenti da parte delle imprese e penalizza i consumi e in questo modo si punta a rallentare l’economia, raffreddando di conseguenza i prezzi. Ma se la frenata è eccessiva, l’intervento delle banche centrali rischiano di provocare una recessione. E sono proprio questi timori a pesare sulle quotazioni del petrolio. Se manca la domanda, si comprerà meno petrolio, vanificando quindi i tagli alla produzione dell’Opec+.
Secondo l’ultimo World Economic Outlook dell’Ocse, la ripresa è debole e il mondo crescerà del 2,7% quest’anno, dopo il +3,3% registrato nel 2022 : l’area dell’euro si fermerà a un modesto +0,9% (l’Italia farà meglio con un +1,2%) , negli Stati Uniti l Pil aumenterà dell’ 1,6%, in Giappone dell’1,3% e in Cina del 5,4%, scommettendo su un nuovo intervento di stimolo della Banca centrale.
I venti di recessione soffiano anche sulla Cina, come segnalano gli ultimi dati sulla bilancia commerciale cinese: le esportazioni sono calate del 7,5% a maggio rispetto al +8,5% di aprile, più delle attese, mentre prosegue la flessione dell’import, in discesa del 4,5% a maggio, anche se a un ritmo più lento del mese precedente (-7,9%). Diminuisce anche il surplus della bilancia commerciale, ridimensionato a 65,81 miliardi contro un’attesa per 92 miliardi. La frenata cinese non solo impatta sull’economia globale, spingendo al ribasso le previsioni di crescita, ma pesa sulla domanda di petrolio di cui Pechino e grande consumatore.
Ma sta accadendo qualcos’altro che potrebbe influenzare i prezzi, ingarbugliando la partita. I dati sulle esportazioni di greggio russo via mare nelle ultime settimane non avrebbero rispettato alcun taglio, anzi sarebbero aumentate. Nelle quattro settimane fino al 4 giugno, la media delle esportazioni di greggio russo via mare è salita infatti a 3,73 milioni di barili al giorno, rispetto ai 3,68 milioni di barili rivisti nelle quattro settimane fino al 28 maggio, evidenziano i dati di tracciamento delle petroliere monitorati da Bloomberg. Per Mosca, sotto sanzioni internazionali dopo l’invasione all’Ucraina, l’export di energia è vitale per finanziare la guerra e far girare la propria economia, per questo fa fatica a rispettare gli impegni sottoscritti dall’Opec+, che ha esteso il taglio di mezzo milione di barili al giorno fino alla fine del 2023 e poi a tutto li 2024. Se i Sauditi sono sempre più nervosi, la Russia ha smesso di segnalare i livelli di produzione di petrolio, costringendo il mercato e gli analisti ad affidarsi ai dati di tracciamento delle navi, a fonti commerciali e statistiche sulle importazioni in Cina e India sulla quantità di fornitura russa.