Fonte: Corriere della Sera
di Michele Salvati
In ogni grande città l’elezione del sindaco è un caso a sé, dal quale non è immediato trarre conclusioni politiche a livello nazionale. Questo era in parte vero già ai tempi della Prima Repubblica. È evidente oggi, in una situazione in cui i partiti tradizionali, tranne uno, sono praticamente scomparsi, le leggi elettorali radicalmente mutate — l’adozione delle primarie complica ulteriormente il quadro — e la forma di governo profondamente alterata. La grande città è oggi una piccola repubblica presidenziale nella quale i poteri del sindaco sono molto più incisivi rispetto a un non lontano passato e la sua figura e la sua persona sono al centro dell’attenzione e del conflitto, sia durante la campagna elettorale, sia dopo. Alcuni si lamentano della distorsione «presidenzialistica» del governo nazionale. Ma questo rimane a tutt’oggi ancorato ad una forma parlamentare, mentre sono le città ad essere passate ad una presidenziale: perché non ci si lamenta di questo ed anzi lo si approva?
Forse perché le competenze (e dunque le decisioni) di un governo cittadino sono più ristrette e meno «politiche» di quello nazionale? E dunque non richiedono il riferimento ai grandi orizzonti ideologici e valoriali che invece impone il governo dell’intero Paese? Insomma, perché si tratta di competenze da «amministratore di condominio» più che da politico? In parte ciò è vero, naturalmente, ma solo in parte: si pensi al ruolo che il comune deve svolgere nella gestione dei flussi di immigrazione, o alle scelte relative all’assistenza, all’edilizia, all’ambiente urbano, e a molti altri temi in cui la buona amministrazione va messa al servizio di orientamenti politici che possono essere assai diversi. Orientamenti in cui il comune può assecondare o contrastare indirizzi nazionali, o può essere un laboratorio in cui nuovi indirizzi vengono sperimentati.
Ed è proprio perché un grande comune fa politica — anche quando il suo sindaco dice di non farla, anche se l’autonomia rispetto ai partiti o ai movimenti cui il sindaco è personalmente vicino è garantita dai poteri di cui dispone e dal consenso che ha ricevuto in quanto eletto direttamente — che resta un legame tra la politica locale e quella nazionale. È per questo che partiti e movimenti a livello nazionale possono con qualche ragione affermare che una figura a loro vicina è stata eletta in una città, e interpretarlo come un successo della loro linea politica. Il caso delle primarie milanesi è un buon esempio di questo legame, proprio perché il comune proviene da un quinquennio di buona, onesta e fortunata amministrazione, e dunque la gara per la candidatura a sindaco non è turbata dalle vicende in cui Roma è coinvolta o dalla difficile situazione napoletana.
La buona amministrazione milanese è stata attuata da una giunta «arancione» — Pd e Sel — subentrata ad una precedente amministrazione di centrodestra, e sicuramente anche il Pd di Renzi non si sarebbe opposto alla continuazione di un’esperienza così positiva se Giuliano Pisapia si fosse ricandidato come sindaco. Per ragioni personali Pisapia non ha potuto ricandidarsi e forse alcuni ricorderanno, nel dicembre scorso, la singolare lettera aperta dei tre sindaci arancione in carica (Marco Doria di Genova, Massimo Zedda di Cagliari, oltre allo stesso Pisapia) in cui si auspicava una prosecuzione a livello locale di coalizioni di questo tipo come espressione di una «vera» posizione politica di centrosinistra, e come modello per l’intero Paese. L’auspicio, nel caso milanese, era però fortemente indebolito dalla defezione di Pisapia, nonostante che il sindaco abbia poi tirato fuori dal cappello una eccellente candidata, la vicesindaco Francesca Balzani, come sua potenziale sostituta. In precedenza un altro bravo membro della giunta, legato alle posizioni più tradizionali del Pd, Pierfrancesco Majorino, aveva presentato la propria candidatura e già stava dedicandosi, con molto anticipo, alla campagna delle primarie.
Questa vicenda ha creato tensioni molto forti in Sel — nazionale e milanese — il quale ha lasciato ai suoi iscritti e simpatizzanti libertà di voto. E ha aperto una autostrada alla candidatura di Beppe Sala, reduce dal successo dell’Expo e candidato ideale per gli elettori centristi e moderati: Sala non ha un passato di politico e di uomo di sinistra, ma per quegli elettori si tratta di un plus, non un di minus. E sicuramente non è un candidato sgradito a Renzi, allargando il fronte del voto Pd a Milano nella stessa direzione in cui il segretario del partito cerca di allargarlo a livello nazionale. Tre candidati di valore, dunque, Balzani, Majorino, Sala: se non possiamo dire che ce n’è per tutti i gusti, ce n’è abbastanza per rappresentare l’intera area politica che va dai centristi fino ai bersaniani e alla parte meno intransigente di Sel. Qualora le primarie del 6 e 7 febbraio vedessero una buona partecipazione, il loro esito darà un’indicazione importante di che cosa bolle in pentola nel grande ed eterogeneo elettorato da cui Renzi cerca di trarre i suoi consensi.