23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

Conferenza Italia-Africa

di Franco Venturini

La Cooperazione italiana non ha più i mezzi, se mai li ha avuti, per sostenere gli aiuti Serve un impegno europeo, anche per contrastare i populismi anti-Unione

Se l’Italia troverà le risorse e la volontà politica che servono per garantirle un seguito operativo, la conferenza italo-africana in corso a Roma, invece di essere una ennesima parata di buone intenzioni, diventerà la più importante iniziativa di politica estera intrapresa da quando Matteo Renzi è a Palazzo Chigi. Da decenni l’Africa viene vista come una occasione economica da non perdere. Le enormi ricchezze del suo sottosuolo, la progressiva nascita di un grande mercato, gli alti tassi di crescita appena ridimensionati dal calo dei prezzi delle materie prime, hanno fatto da sfondo alle ambizioni rivali di francesi, americani, britannici, tutti impegnati a difendere zone d’influenza ex coloniali o neocoloniali poi ridotte al lumicino dall’arrembaggio cinese. Dell’Africa si parlava soltanto per questo, per le opportunità economiche che offriva e per le crisi umanitarie, naturali o derivanti da guerre feroci, che proponeva alla coscienza del mondo sviluppato. Non è più così, o non è più soltanto così. In Africa, oggi, si giocano la nostra stabilità e la nostra sicurezza, come dire i più significativi dei nostri interessi nazionali. Al punto che l’europeismo critico e l’attenzione all’Africa diventano per l’Italia due facce della stessa medaglia, due esigenze complementari che non è più possibile affrontare separatamente o con diversa serietà di impegno. Ovunque in Europa è ormai evidente il collegamento tra ondata migratoria e brusco spostamento degli equilibri politici. Il prossimo test è atteso in Austria, domenica prossima. Ma anche altrove l’avanzata dei populismi anti-sistema e anti-migranti unisce nella protesta la perdurante crisi economica e l’arrivo dei diversi, avvicinandosi al potere, dove non lo ha già conquistato, attraverso l’ineccepibile metodo democratico delle elezioni. Le scelte fatte nelle urne vanno rispettate, s’intende. E tuttavia un fenomeno collettivo di questo genere destabilizza e distrugge, come ha ben capito Angela Merkel quando ha imposto alla Ue, pur di guadagnare tempo, un indigesto patto con la Turchia di Erdogan. Ebbene, da dove vengono i migranti che giungono in Italia e che in Italia rimarranno se continueranno a non essere rispettati gli accordi di redistribuzione? Dall’Eritrea, dalla Nigeria, dalla Somalia, dal Sudan, dall’Egitto, mentre assai più limitato è a tutt’oggi, e fino a quando non sarà stata aperta una ipotetica rotta attraverso l’Adriatico, l’afflusso dalla Siria. La risposta è dunque chiara: i «nostri» migranti vengono dall’Africa, e in Africa richiedono efficaci politiche di contenimento (cosa ben diversa dal respingimento).

Il governo ci sta provando, conscio che non siamo di fronte a fenomeni di breve durata. Il ministro Gentiloni evoca riforme strutturali da realizzare nei Paesi di origine, almeno in quelli dove le guerre e le dittature lasciano ancora qualche spazio allo sviluppo: la modernizzazione dell’agricoltura, nuove infrastrutture, interventi per gestire l’urbanizzazione, misure per favorire i commerci con i Paesi vicini. Si vuole consentire agli africani di restare a casa loro con qualche speranza, con qualche possibilità di lavoro. Ma la Cooperazione italiana non ha più i mezzi, se mai li ha avuti, per sostenere simili aiuti. Serve un impegno europeo, e la proposta del Migration Compact, volta a trovare le risorse per una partnership con l’Africa in cambio di un più efficace controllo delle frontiere e di una maggiore cooperazione in materia di rimpatri, è parsa a molti una iniziativa meritoria. Non alla Merkel, quando ha sentito parlare di eurobond per finanziarla. Ma altre vie possono e devono essere esplorate. Prima che le destabilizzazioni democratiche avanzino ancora.
L’altro terreno di prova è la sicurezza. Quali che ne siano i motivi ispiratori (più attenta osservazione della realtà in Libia, oppure desiderio di non turbare le prove elettorali in arrivo da noi?), l’Italia ha ragionevolmente preso la decisione di mettere in frigorifero l’invio in Libia di un robusto contingente militare. I rischi sarebbero stati altissimi, come da noi più volte segnalato. Ma questo progresso non esclude altre confusioni od omissioni. Armare il governo Sarraj per aiutarlo a combattere l’Isis, come deciso a Vienna d’accordo con gli americani, significa armare un esercito nazionale che non esiste, rafforzare in realtà le milizie alleate di Tripoli, e dunque schierare l’Occidente nella lotta interna libica che minaccia di portare a una divisione del Paese. Il rimedio dovrebbe essere un accordo con il generale Haftar e la creazione di un comando militare unificato. Speriamo. Ma appare più probabile una corsa al riarmo che Egitto ed Emirati Arabi Uniti estenderebbero più di quanto già facciano alla Cirenaica, scatenando una diffusa guerra civile territoriale e petrolifera.
Le piroette della comunità internazionale rischiano così di portare in secondo piano quello che dovrebbe essere l’obbiettivo prioritario: la lotta all’Isis. A fianco dei libici che vogliono avere un ruolo nella Libia di domani, con truppe speciali per istruirli ed appoggiarli che peraltro noi non abbiamo dislocato (che si sappia) diversamente da Usa, Francia e Gran Bretagna, facendo leva sul nemico comune come fattore unificante assai più efficace del governo Sarraj. La lotta all’Isis, perché da Sirte gli uomini del Califfato minacciano la preziosa (per noi) stabilità della Tunisia. Perché con Boko Haram in Nigeria e con altri gruppi jihadisti dall’Egitto all’Algeria e alla Costa d’Avorio l’Isis ha costituito una rete africana del terrore che minaccia direttamente anche l’Europa. Perché fino a quando in Libia ci sarà l’Isis non potremo nemmeno tentare un controllo dei flussi migratori che partono dalle sue coste. E anche perché l’Interpol denuncia una stretta cooperazione tra Isis e trafficanti di esseri umani, mentre centinaia di migliaia di sventurati aspettano il loro turno e pagano il prezzo della vergogna. L’Africa è una sfida, costante e decisiva, che dobbiamo raccogliere in fretta. E non soltanto a parole.

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