19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Mieli

L’idea di creare centri di accoglienza in territorio nordafricano dovrebbe far insospettire il premier Conte: ci sono buone ragioni per lasciarla cadere


Va bene tutto, ma non la presa in giro. Accade con una certa regolarità che nei colloqui internazionali con i capi di Stato e di governo d’Europa quando si giunge al delicato tema delle migrazioni il professor Conte sia intrattenuto dagli interlocutori con la prospettazione di una chimera. È successo con Emmanuel Macron, poi di nuovo con Angela Merkel che gli hanno lasciato intravedere, come soluzione del problema per noi più drammatico, il miraggio della creazione di cosiddetti hotspot (centri di accoglienza e identificazione dei migranti) in terra nordafricana. Un’idea suggestiva: i fuggitivi dall’Africa centrale verrebbero raccolti e accuditi da qualche parte della costa tunisina oppure egiziana sotto la protezione — si presume — di forze armate delle Nazioni Unite o di altri organismi internazionali. Militari e personale scelto di questi organismi si occuperebbero poi di dividere il 7 per cento composto da perseguitati politici (i calcoli sono fatti sulle percentuali di quelli sbarcati fin qui in Italia) i quali avrebbero l’opportunità entrare in Europa, dal 93 per cento, i cosiddetti «migranti economici», che (secondo gli stessi calcoli) per le leggi internazionali non godrebbero di un identico diritto. E che, perciò, quegli stessi Paesi dovrebbero incaricarsi di rispedire — salvo qualche eccezione — alle loro terre d’origine. Il tutto nell’intento di risparmiare ai migranti il rischioso viaggio nel mar Mediterraneo e la successiva selezione nei punti d’approdo siciliani.
La Libia — dove nei giorni scorsi le milizie di Ibrahim Jadran hanno messo in difficoltà quelle del presidente Fayez al Serraj costringendolo a chiudere temporaneamente i terminali petroliferi — verrebbe tendenzialmente esclusa dal progetto per l’evidente assenza di un potere centrale capace di sovrintendere all’ambizioso disegno e garantire la sicurezza di queste «piattaforme». Laddove però gli hotspot libici già in funzione e adesso supervisionati dall’Unhcr continuerebbero a operare nel nuovo contesto.
Messa così, la cosa appare assai suggestiva, tant’è che non si capisce perché non ci si sia pensato prima. Già, perché? Per il fatto che quando Angela Merkel, all’epoca in cui Conte era ancora un semplice docente universitario, prospettò per prima ai governanti di Egitto e Tunisia l’idea di costruire a casa loro un tal genere di centri di accoglienza, accompagnandola con un’offerta di denaro (mezzo miliardo di euro) altrettanto generosa di quella accettata dalla Turchia, la risposta fu un categorico no. Le fu spiegato che lì da loro la situazione non era quella di Istanbul, Ankara o delle zone di confine tra Turchia e Siria, e le furono elencati i convincenti motivi per i quali l’operazione era impossibile.
Punto primo. Egitto e Tunisia sono Paesi a loro modo democratici (il secondo più del primo, come è noto). Sono comunque Paesi in cui si vota e dove esiste un’opinione pubblica che è in grado di condizionare — anche fuori dalle cabine elettorali — il corso degli eventi politici. In entrambi i Paesi tale opinione pubblica guarda a questi flussi migratori in direzione dell’Europa non come li si vede da noi, bensì alla stregua di «dolorosi percorsi verso la libertà e l’emancipazione». Di conseguenza proprio la parte più aperta e progressista di Egitto e Tunisia accoglierebbe con ostilità la creazione di quelli che ai loro occhi sarebbero null’altro che «campi di costrizione e di rimpatrio forzato». Va aggiunto che la sensibilità su questi temi è già adesso molto sviluppata: a Mdhila in marzo si sono avute manifestazioni conclusesi addirittura con assalti e incendio della stazione di polizia; pochi giorni fa è stato sostituito il ministro dell’Interno, Lotfi Braham, accusato di non aver fatto il possibile per salvare le 112 vittime di un naufragio di migranti in acque tunisine.
Punto secondo. Da Egitto e Tunisia prendono il largo prevalentemente egiziani e tunisini decisi a espatriare, come i nostri emigranti di un secolo fa, in cerca di una vita migliore sotto il profilo economico. E lo fanno in misura irrisoria (qualche migliaio) se confrontata a quella (decine, centinaia di migliaia) di coloro che partono dalle coste libiche dove si concentrano esseri umani provenienti dall’Africa centrale. Il primo effetto dei nuovi hotspot internazionali in Egitto e Tunisia potrebbe essere perciò quello di creare in quei Paesi un cortocircuito interno che rischierebbe di aggravare il loro già travagliato iter verso la realizzazione di un pieno regime democratico.
Punto terzo. Forse chi prospetta questa idea, pensa di portare negli hotspot egiziani e tunisini almeno una parte delle decine di migliaia di persone intercettate dopo che sono partite dalle coste libiche. In altre parole le imbarcazioni delle Ong, raccolti i profughi abbandonati in mare dai trafficanti, li dovrebbero trasferire su navi europee che li farebbero poi scendere nei porti egiziani e tunisini; da questi porti verrebbero quindi trasferiti nei campi di smistamento e di lì (nella misura, ripetiamo, all’incirca del 93%) rispediti ai Paesi di origine. Con conseguenze sull’ordine pubblico facili da immaginare.
Punto quarto. Qualcuno (in Europa) ha immaginato che l’operazione potrebbe essere realizzata già a terra: le carovane organizzate dai trafficanti verrebbero intercettate in territorio libico per essere dirottate verso gli hotspot egiziani e tunisini. Va tenuto presente che il delicatissimo contesto è quello in cui già adesso un milione di egiziani lavorano in Libia. Il dirottamento delle carovane si configurerebbe perciò come un’operazione militare di evidente complessità al punto che probabilmente sarebbe più semplice concepire una nuova colonizzazione dell’intera Libia così da trasformarla in un gigantesco hotspot africano. Operazione sconsigliabile innanzitutto per motivi d’ordine politico e morale ma anche perché destinata, a ogni evidenza, a creare molti più problemi di quanti intenderebbe risolvere.
Per queste ragioni, quando i capi di Stato europei gli fanno intravedere una soluzione del genere, il professor Conte dovrebbe insospettirsi. E domandarsi perché non gli propongano la prosecuzione delle politiche già sperimentate dal predecessore di Matteo Salvini (l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti) che negli ultimi dieci mesi avevano dato importanti risultati. E non stiamo parlando adesso della pur clamorosa riduzione degli sbarchi su suolo italiano che comunque dopo un’estate da record, anche tra gennaio e aprile scorsi sono scesi del 75% rispetto a quelli del primo quadrimestre del 2017. Qui ci interessa di più far rilevare come nei campi di accoglienza già esistenti in Libia — alcuni dei quali erano stati fino a poco tempo fa veri e propri lager — proprio in questi mesi il clima è cambiato in virtù dell’intervento di personale delle Nazioni Unite e di alcune Organizzazioni non governative. Da quei campi si è cominciato (attenzione: cominciato) a sperimentare un «corridoio umanitario» attraverso il quale, a fine dicembre scorso, è stato possibile portare in Italia — con l’aiuto della Conferenza episcopale italiana — qualche centinaio di migranti. E si è iniziato a ritrasferire nei Paesi d’origine, tramite «rimpatri volontari assistiti», venticinquemila migranti i quali hanno accettato di «tornare a casa» muniti di una «dote» con cui rifarsi una vita in Gambia, Guinea, Nigeria. Senza contare i centri accoglienza in Niger o sulla frontiera meridionale della Libia che hanno consentito di interrompere questi viaggi della speranza già a metà tragitto. E di conferire a Paesi africani e nordafricani la forza per combattere la vera guerra di cui nessuno si occupa: quella contro i trafficanti. Il tutto, ripetiamo, sotto le bandiere delle Nazioni Unite e con il concorso di Ong.
Strano che adesso i capi di Stato europei nell’accogliere il nuovo presidente del Consiglio italiano cerchino di convincerlo della bontà dell’idea di hotspot egiziani, tunisini, magari libici, qualcuno dice perfino in Albania o in Kosovo. Fossimo in lui, lasceremmo cadere ogni discorso che anche solo alluda a questa prospettiva. E cercheremmo di evitare che se ne faccia menzione sia nella riunione ristretta di domenica sia nei comunicati conclusivi del Consiglio europeo che si terrà il 28 e 29 giugno. Dal momento che quella menzione — come ammette sottovoce perfino il commissario europeo all’immigrazione Dimitris Avramopulos — non è altro che fumo negli occhi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *