Alessandro Nasta perse la vita cadendo dall’albero di maestra sull’Amerigo Vespucci, da un’altezza di 15 metri, al largo dell’Argentario. Dopo la sua morte la Marina nel 2015 introdusse i dispositivi anticaduta (le imbragature) che aveva ignorato fino ad allora
Il tribunale di Civitavecchia ha emesso una sentenza, l’altro giorno, che racchiude in sé tutto il senso della contraddizione e la lentezza dello Stato. Riguardo alla lentezza basti sapere che ci sono voluti 11 anni – 11 – per arrivare al primo grado dopo che il processo, cominciato sei anni fa, è passato di mano quattro volte. Il reato era omicidio colposo aggravato dalle violazioni delle norme antinfortunistiche, e i termini della prescrizione (per dire) sono 17 anni e mezzo…
Il senso della contraddizione, se possibile, è un punto ancora più dolente e si può riassumere con una considerazione: prima di imporre (giustamente) le norme sul lavoro sicuro, lo Stato dovrebbe pretendere che quelle norme le applicassero i suoi uomini. Ma in questa storia è successo che il datore di lavoro Stato, definiamolo così, abbia eluso totalmente le più elementari regole per mettere al riparo i suoi lavoratori da possibili infortuni. Le stesse regole che ha prodotto e che (ripetiamo: giustamente) impone agli imprenditori e ai lavoratori. La storia che stiamo raccontando è quella di Alessandro Nasta, sottocapo nocchiere sull’Amerigo Vespucci, orgoglio delle navi scuola a vela della Marina Militare.
«Ale», 29 anni, perse la vita cadendo dall’albero di maestra, da un’altezza di 15 metri, al largo dell’Argentario. Era il 24 maggio del 2012 e, ammesso che ci sia qualcosa al mondo che possa consolare una madre e un padre davanti alla perdita di un figlio, è una carezza di consolazione sapere che il suo sacrificio quantomeno non è stato inutile. Perché dopo la sua morte la Marina nel 2015 introdusse — finalmente — i dispositivi anticaduta (le imbragature) che aveva del tutto ignorato fino ad allora benché fossero previsti per legge dal 2008 (e poi recepiti integralmente dal suo Stato Maggiore).
La sentenza dell’altro giorno (vedremo cosa diranno i successivi gradi di giudizio) ha accolto le tesi degli avvocati Alessandra Guarini e Massimiliano Gabrielli: considerare datori di lavoro diretti non soltanto il comandante della Vespucci ma anche gli allora vertici della Marina, cioè tre capi di Stato maggiore. Per loro condanne da un anno e 2 mesi a un anno e 10 mesi. Ma la condanna è anche per tradizione marinaresca che, mentre lo Stato scriveva norme di protezione per gli altri, prevedeva arrampicate sull’albero di maestra a mani nude.