Due nodi sul percorso dell’esecutivo: la riduzione dei parlamentari nei due rami, che implica che anche il «cambio di casacca» di pochi tra di loro possa comportare difficoltà e il confine sempre più labile della separazione tra politica estera e politica interna
Il governo che si è appena insediato deve affrontare una situazione nuova, inedita nella storia repubblicana. Dovrà rispondere a un Parlamento ridotto nel numero, nel quale, quindi, il peso di ciascun parlamentare è relativamente maggiore. È un caso nel quale la quantità diventa qualità: mutamenti puramente quantitativi possono risolversi, a un certo punto, in distinzioni qualitative, come insegna la filosofia hegeliana. Infatti, il minor numero dei parlamentari in ciascuna Camera implica che anche il «cambio di casacca» di pochi rappresentanti possa comportare difficoltà per il governo. Una seconda conseguenza riguarda ancora più direttamente i ministri, perché quattro quinti dei componenti del governo sono parlamentari e debbono dividersi tra il ramo legislativo e la funzione esecutiva, senza però far mancare la maggioranza in Parlamento.
Il legame più stretto tra governo e Parlamento, che viene così necessariamente a costituirsi, comporta cambiamenti necessari dell’azione di governo. L’esecutivo non potrà contare solo sul ministro per i rapporti con il Parlamento. Questo dovrà rafforzare l’azione di coordinamento della presenza governativa nelle assemblee legislative, perché tutti i ministri dovranno mantenere un rapporto con le Camere. L’esecutivo non potrà continuare pratiche che una parte di esso ha criticato dall’opposizione, come le troppe richieste di voti di fiducia per abbreviare l’esame parlamentare degli atti di iniziativa governativa.
Più in generale, la bilancia dei rapporti Parlamento-governo dovrà ritornare a pendere dalla parte del Parlamento. E questo produrrà il ripristino del «figurino» costituzionale, tradito negli ultimi decenni dalla «Costituzione vivente».
I problemi non finiscono qui, perché se ne aggiungono altri due, che sono andati aumentando di peso negli ultimi anni. Il primo è prodotto dalla dissoluzione della separazione tra politica estera e politica interna. Da molti anni, in un continuo crescendo, ministri della difesa, dell’economia, dell’agricoltura, dell’industria, della cultura, del turismo, del lavoro, sono chiamati a rappresentare gli interessi nazionali in consessi internazionali, nei quali occorre esser presenti e ben preparati, per far sentire la voce dell’Italia, per negoziare con perizia, per saper proporre compromessi ragionevoli.
È un compito sempre più importante, che porta i ministri per il mondo e richiede grandi abilità negoziali. Un alto funzionario della Farnesina, Nicola Verola, ha scritto, nel 2020, un libro intitolato «Il punto di incontro. Il negoziato nell’Unione europea» (Luiss University Press) di cui consiglierei la lettura a coloro che saranno chiamati a negoziare, non solo nell’Unione europea. Tanto più che una legge del 2021 prevede un obbligo dell’intero governo, non solo del suo presidente, di illustrare alle Camere o alle loro commissioni le proprie posizioni, prima delle riunioni del Consiglio dell’Unione europea.
Un altro cambiamento importante nel sistema di governo italiano è quello che deriva dall’esperimento regionale, che ha ormai raggiunto il mezzo secolo di vita. I governi nazionali debbono, in molte materie, non solo quelle definite concorrenti, informarsi reciprocamente, discutere, negoziare, co-decidere con le regioni. E questo si è visto molto bene durante la pandemia, quando le regioni, anche perché forti del loro sistema presidenziale, hanno fatto la voce grossa con i governi nazionali. Una modifica del regolamento del Senato, apportata nel luglio scorso, prevede che la Commissione parlamentare per le questioni regionali possa invitare rappresentanti delle regioni a partecipare alle sedute della Commissione stessa. Questo è un altro raccordo a disposizione anche del governo, per evitare un eccesso di conflittualità centro-periferia.
Gli esecutivi statali, in sistemi policentrici come quelli contemporanei, articolati in tanti governi sub-nazionali e ancora più governi sovra-nazionali, costituiscono un punto di snodo essenziale. Sono tirati da una parte e dall’altra. Proprio per questo hanno acquisito un potere che durante il periodo dei «governi di assemblea» non avevano. Questo richiede non solo tanto lavoro, ma anche la capacità di «aggiustare il tiro» per adeguare strutture e azione di governo ai nuovi contesti. Una delle prime regole di ogni governo è di non rimanere prigionieri delle questioni urgenti, che tendono sempre a prendere la mano a quelle importanti.