22 Novembre 2024

Ogni donna che decide di lasciare il proprio lavoro retribuito per dedicarsi esclusivamente alla cura della famiglia si espone a un rischio potenziale di violenza economica. Ovvero al rischio di trovarsi nella situazione di fragilità in cui il partner potrebbe limitare la sua libertà usando il denaro che solo lui guadagna come arma di ricatto e controllo.
Può sembrare un’affermazione forte, estrema per chi sa di trovarsi in una situazione di coppia ”serena” ma che trova la sua legittimità, purtroppo, se esploriamo le radici culturali e storiche della violenza economica e quei comportamenti abituali che ancora caratterizzano molti ménage di coppia. Sì, a volte anche i più “insospettabili”.
Partiamo dalle basi: come le altre forme di violenza maschile sulle donne, la violenza economica esiste perché nella nostra società persiste una asimmetria nella divisione del potere economico, ovvero il possesso del denaro e la libertà di disporne, e perché le donne subiscono ancora discriminazioni e segregazione nella distribuzione dei ruoli: il gap salariale in Italia è circa del 13% (dati Istat), ovvero le donne guadagnano in media il 13% in meno rispetto agli uomini per ogni ora di lavoro (a livello globale siamo al 16%), e le tipologie di lavoro a più alto reddito, ovvero finanza, tecnologia e ingegneria, sono ancora praticate in maggioranza da uomini. Secondo l’Inps, infatti, le retribuzioni medie settimanali lorde degli uomini nel 2023 sono state in media pari a 643 euro, superiori del 28,34% rispetto ai 501 euro medi percepiti dalle donne.
A monte della disparità economica c’è la sottomissione culturale e storica sull’uso del denaro: «È soltanto dal 1919 che, in Italia, le donne possono vendere beni di loro proprietà (ereditato o frutto del loro lavoro) senza l’autorizzazione del marito – spiega Federica Gentile ricercatrice, esperta di gender studies autrice con Giovanna Badalassi del libro «Signora Economia». – Il modello di sottomissione delle donne, ancora oggi vivo e vegeto, è ben rappresentato dalla “coverture”, ovvero il concetto di common law (diritto comune) inglese, in vigore dal Medioevo all’Ottocento, secondo cui lo status giuridico di una donna sposata («feme covert») era subordinato a quello del marito».
Ma mentre gli uomini hanno sempre guadagnato del loro lavoro o dalle loro rendite, le donne hanno sempre svolto e svolgono il lavoro domestico e di cura della prole che non produce alcun reddito. Ma un valore quel lavoro ce l’ha, eccome. Solo di recente, studi e ricerche hanno provato a quantificarlo. «Secondo uno studio Oxfam del 2020, per esempio, arriverebbe 10.800 miliardi di dollari Usa a livello globale, una cifra che equivale a tre volte tutto il settore tecnologico del mondo – spiega Giovanna Badalassi – Una quantità enorme di lavoro di cura svolto gratuitamente», Parlando dell’Italia, secondo il rapporto del 2018 sul lavoro di cura dell’International Labour Organization, nel nostro paese, le donne svolgono il 75% del lavoro di cura non retribuito, pari a 5 ore e 5 minuti al giorno, a fronte di solo un’ora e 48 minuti per gli uomini.
Badalassi sottolinea anche quanto questo lavoro di cura, ben lungi dall’essere diminuito negli anni, è anche diventato più complesso: «Negli Usa Salary.com, azienda specializzata nel calcolo salariale, ha provato a simulare lo stipendio che dovrebbe prendere una madre misurando il tempo dedicato alle varie attività famigliari che svolte abitualmente corrispondenti a 20 figure professionali, tra cui governante, autista, insegnante di scuola, direttrice di cucina, cameriera, infermiera, responsabile dell’ufficio finanziario e della logistica, negoziatrice dei conflitti e progettista di interni. Fa impressione vero? Calcolando, si arriva a 184.820 dollari. Ovviamente si tratta di una provocazione, ma fa riflettere».
Eppure, culturalmente, ancora oggi tendiamo a definire una donna che si occupa a tempo pieno di gestire casa e famiglia come una donna «che non lavora». Quando questo pregiudizio è radicato all’interno della coppia, non è raro che si traduca in forme più o meno sottili di violenza economica: il partner che controlla come lei spende il denaro, minaccia di negarlo, la ostacola nella ricerca di trovare un lavoro o nel mantenerlo rifiutandosi di partecipare alla cura della prole. Le forme, lo sappiamo, sono molte. «Ma stiamo parlando di un pregiudizio nel quale le stesse donne cadono – spiega Federica Gentile – quando si tratta per esempio di esternalizzare il lavoro di cura, affidarlo ad altri come forma di lavoro retribuito, per esempio cercando un asilo nido o una baby sitter. Il discorso che tendiamo a fare è: l’asilo mi costa la metà del mio stipendio. Quasi mai facciamo il calcolo sullo stipendio di lui o la somma dei due stipendi. Come se riconoscessimo da sole il peso di questa responsabilità: siccome sei donna e non ti prendi cura, anche se dovresti, del tuo figlio piccolo, allora devi fare conto sul tuo stipendio».
Della stessa forma di pregiudizio inconsapevole ci parla anche Aminata Gabriella Fall, in rete nota come Pecuniami, potremo definirla un’influencer finanziaria, ex dirigente di banca che si dedica a tempo pieno alla sua piattaforma con la quale aiuta le donne a comprendere il mondo dei soldi: «Mi capita spesso di parlare con donne abituate a usare il loro denaro per le spese per i figli, per esempio, una abitudine direi trasversale ai vari ceti sociali. Donne che ritengono assolutamente giusto accollarsi la spesa per l’asilo nido altrimenti non potrebbero andare a lavorare. Altre sono consapevoli che sia ingiusto ma non sanno come affrontare la cosa con il partner. E dall’altra parte ci sono mariti assolutamente inconsapevoli di quali siano le spese per i figli. Gli stessi mariti che poi, purtroppo, in fase di separazione pensano che la moglie pretenda un sacco di soldi. Si arriva a quantificare davvero il lavoro di cura solo in fase di divorzio, sfortunatamente».
La condivisione del lavoro di cura dentro la famiglia di cui si parla spesso, insomma, non è solo una questione di tempo ma di soldi: i soldi spesi per la cura. Che non escono in modo equo dalle tasche delle donne e da quelle degli uomini. Gli stereotipi di genere sono quelli che giustificano le diseguaglianze e non fanno percepire la violenza economica anzi, fanno sì che sia accettata. Secondo una ricerca Ue il 44% dei cittadini europei ritiene che il ruolo più importante per una donna sia quello di occuparsi della casa e della famiglia e per l’uomo quello di portare i soldi a casa. Questi pregiudizi che ancora non vediamo come tali, oltre ad alimentare le diseguaglianze economiche che già esistono, ci espongono al rischio della violenza economica. Dalla sua esperienza passata allo sportello della banca Aminata Fall ricorda i casi di sospetta violenza economica verso i quali non poteva fare nulla: «mariti che venivano allo sportello a incassare l’assegno della moglie: assegni correttamente girati, quindi non potevamo far altro che pagare, ma se dietro ci fosse stata un’imposizione?».
Certamente le situazioni di povertà non fanno che aggiungere ulteriore stress ed esporre maggiormente le donne al rischio di subire violenza, compresa quella economica. «Uno studio dell’Università di Bristol nel Regno Unito – racconta Federica Gentile – ha rilevato che donne che vivono in famiglia con meno di 10mila sterline all’anno (poco meno di 12mila euro) hanno una probabilità tre volte e mezzo maggiore di subire violenza domestica dal partner rispetto a quelle che vivono in famiglie dal reddito superiore a 20mila sterline. E durante la pandemia il 43% delle donne ha dichiarato di essere stata ostacolata dal maltrattante nella capacità di lavorare e in 4 casi su 5 il maltrattante ha cercato di controllare le sue risorse economiche».
Ma come dovrebbe essere, allora, la prevenzione della violenza economica? Come sempre di fronte a problemi complessi servono risposte complesse, che agiscano su più fronti. Il lavoro culturale individuale per contrastare gli stereotipi e l’educazione di consapevolezza finanziaria sono sicuramente molto importanti. E le iniziative non mancano. «Ma rischiano di essere insufficienti senza leggi e politiche economiche adeguate che favoriscano la parità e la genitorialità condivisa e la creazione di infrastrutture sociali, vedi il classico esempio degli esempio degli asili nido – sottolineano insieme Badalassi e Gentile. – Un problema mai risolto in 40 anni di governo di vario colore. Perché a una classe politica fatta prevalentemente da uomini non ha mai interessato affrontarlo. Eppure, investire in infrastrutture della cura ha un effetto positivo sull’occupazione femminile e quindi sull’economia del paese in generale».

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