Ci aspetta una transizione lunga e difficile. Alcuni aggiustamenti saranno possibili attraverso grandi traumi e avremo bisogno di sistemi economici più coesi e resilienti
Il discorso sostenibilità è oggi molto ampio. Di fronte a eventi sempre più estremi, tutti hanno capito che occorre fare qualche cosa per contrastare i cambiamenti climatici e proteggere la biosfera. Il problema è che è siamo ancora molto, molto, molto lontani dal riuscire a tradurre in pratica tale consapevolezza. La provocazione di Greta Thunberg all’incontro tenutosi a Milano — «Siamo stufi dei vostri bla-bla-bla» — colpisce nel segno. Allo stato attuale, le strategie per cercare di affrontare la questione climatica seguono quattro piste principali.
La prima, la più importante, è l’innovazione. Benché fondamentale — senza un poderoso sforzo scientifico e tecnologico non è nemmeno immaginabile affrontare il problema — occorre essere consapevoli che questa via ha tempi lunghi e costi elevati. Anche laddove riuscissimo a fare passi in avanti decisivi (e oggi non realizzati) ci vorrebbero comunque molto tempo e molti soldi per eliminare le emissioni più inquinanti, sostituendo vecchi impianti e apparati. Insomma, per quanto fondamentale, la tecnologia non sarà la fata turchina capace di risolvere magicamente i problemi.
La seconda via è quella degli accordi internazionali. Siamo alla vigilia della Cop 26 di Glasgow. Tutti sperano che si arrivi a decisioni importanti. Rispetto alle precedenti edizioni, le premesse sono migliori, soprattutto perché Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti vogliono essere protagonisti. Ma è bene non farsi troppe illusioni: a sei anni di distanza, diversi dei traguardi fissati a Parigi sono ancora ben lontani dall’essere stati raggiunti. Molti Paesi, soprattutto quelli più poveri, fanno fatica a rispettare gli impegni. La situazione rimane preoccupante: la temperatura del pianeta cresce più velocemente di quanto si pensava, mentre le previsioni dicono che le emissioni di CO2 continueranno a salire almeno fino a 2030 (+16% rispetto al 2010). Vale dunque anche in questo caso quanto detto per la tecnologia: gli accordi internazionali sono essenziali, ma da soli non bastano.
La terza via passa da una finanza meno speculativa e più sostenibile. In effetti, sulla base dei 17 Millennium Development Goals fissati dall’agenda 2030 dell’Onu, si vanno rapidamente diffondendo investimenti orientati da criteri di sostenibilità. In particolare i cosiddetti Esg (Environmental, Social, Governance), nel perseguire gli obiettivi tipici della gestione finanziaria, prendono in considerazione aspetti di natura ambientale, sociale e di governance. La quota di questi investimenti sta rapidamente crescendo. Ma, oltre a rimanere minoritari (secondo Global Data, solo una impresa su cinque è pienamente convinta della necessità di un cambiamento) è tutto da dimostrare quale sia il reale impatto di questi strumenti. Si dirà: «sempre meglio di niente», ed è vero. A condizione di non far finta di non sapere che, benché utile, questo strumento non è certo risolutivo.
La quarta e ultima via è quella che passa dai cambiamenti nelle abitudini dei consumatori e negli stili di vita. In effetti, le ricerche dicono che è in rapida espansione il consumo di beni che rispettano standard ambientali, sociali e etici. Ma anche in questo caso siamo ben lontani da un impatto risolutivo. Le nostre abitudini quotidiane sono terribilmente entropiche. La spinta dal basso è fondamentale, ma rimane moltissimo da fare per cambiare significativamente il quadro.
Centrare l’obiettivo di una economia sostenibile è molto difficile. Anche perché è la prima volta che le società moderne si trovano ad affrontare un problema di tale portata e complessità: nell’Antropocene (cioè l’epoca geologica in cui l’ambiente terrestre è cambiato dagli effetti dell’azione umana) l’aumento delle nostre possibilità di vita (crescita) non si dà senza vincoli ma in rapporto agli equilibri ecosistemici.
In un libro uscito qualche mese fa — « E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica» — lo scrittore Jonathan Franzen ha esplicitato quello che molti pensano: «… se avete meno di sessant’anni, avrete buone probabilità di assistere alla totale destabilizzazione della vita sulla Terra, carestie su vasta scala, incendi apocalittici, implosione di intere economie, centinaia di milioni di rifugiati in fuga da regioni rese inabitabili dal caldo estremo o dalla siccità permanente. Se avete meno di trent’anni, vi assisterete quasi sicuramente… Ci sono due modi di affrontare il problema. Si può continuare a sperare che la catastrofe sia evitabile, e sentirsi sempre più frustrati o furiosi per l’inerzia del mondo. Oppure si può accettare l’idea che il disastro sta arrivando e cominciare a ripensare il significato della parola “speranza”… Le mie speranze sono affidate non alla nostra capacità di evitare la catastrofe climatica, ma a quella di affrontarla in modo ragionevole e umano».
Nella provocazione di Franzen (che personalmente non condivido) c’è un punto importante: mentre intensifichiamo gli sforzi per andare nella direzione di una economia sostenibile, non tralasciamo di preparare le nostre società a gestire emergenze più o meno gravi. Quello che ci aspetta è una transizione che sarà comunque lunga e difficile. Alcuni aggiustamenti si raggiungeranno attraverso shock anche molto forti. Comunque vada, negli anni a venire avremo bisogno di sistemi economici e sociali più coesi e resilienti, meno dipendenti dall’estero, più capaci di aggiustamenti veloci. Una bella sfida.