19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Ernesto Galli della Loggia

L’establishment non è stato capace di difendersi, non ha fatto nulla per attenuare l’immagine della propria lontananza dalla maggioranza dei cittadini


In Italia come nell’intero Occidente le élite non godono oggi di molta simpatia. Per ragioni almeno in parte fondate: l’insuccesso nel prevedere e nel contrastare le conseguenze negative della globalizzazione, la loro chiusura e autoperpetuazione di tipo oligarchico che si esprime nella chiusura oligarchica del sistema politico e dei suoi annessi burocratici, e infine per un’altra ragione ancora più importante: per quello che è percepito come il progressivo allontanamento delle élite stesse dal sentire collettivo, come una sorta di secessione culturale dei «pochi» dai «più». Tale allontanamento effettivamente c’è stato. Da tempo le élite occidentali sono diventate sempre più cosmopolite e multiculturali nei gusti e nelle esperienze, sempre più spregiudicatamente «moderne» e prive di «pregiudizi» nei costumi e nelle idee, con stili di vita che l’ineguaglianza sociale (crescente) e le circostanze dell’epoca (l’immigrazione) hanno reso sempre più distanti da quelli degli «altri». In Italia, ad accrescere esponenzialmente l’ostilità verso l’establishment si sono aggiunte poi due patologie in particolare che stanno devastando la nostra società: da un lato la sempre più massiccia deculturizzazione legata alla crisi del sistema scolastico, e dall’altro la finta acculturazione democratica della Rete. Grazie a entrambe chiunque crede di sapere tutto di tutto sentendosi poi autorizzato a dire la sua su qualunque cosa, convinto che la propria opinione valga come quella di chiunque altro. È di tali patologie in particolare che si è fatto forte quella cosa che chiamiamo populismo: al fine di delegittimare l’idea stessa di élite, in tal modo aiutando la diffusione di un vasto e crescente plebeismo culturale.
In specie da questo attacco l’establishment italiano non è stato finora capace di difendersi in maniera adeguata. Soprattutto esso non ne ha capito davvero le cause e le ragioni del successo. Le élite del Paese e con esse le forze politiche che sostenendone le ragioni fronteggiano il populismo (il Pd e Forza Italia), non hanno pensato e tanto meno fatto nulla per attenuare sia l’immagine della propria lontananza dalla massa della gente, sia l’effettiva e crescente diversità tra il modo di sentire dell’alto e del basso della scala sociale. Non hanno messo in campo alcuna azione per far sì che la gente comune, ad esempio, si senta maggiormente parte del sentire ufficiale, dell’azione pubblica, delle sue istituzioni. Né hanno pensato alcun modo per riaccreditare se stesse e il proprio ruolo nella formazione e nella comunicazione delle idee riaffermando il ruolo della conoscenza e della competenza. Hanno lasciato così via libera alla marcia vittoriosa dell’ignoranza e della demagogia. Per chiarire il senso di tutte queste osservazioni corro il rischio di fare alcuni esempi. Di indicare le possibili azioni di contrasto alle patologie in atto, proprio partendo dall’ultimo punto appena accennato.
1) L’ignoranza va innanzi tutto combattuta a scuola, ribadendo l’assoluta centralità dell’istruzione, il suo carattere imprescindibile per accedere a certi livelli della vita sociale. Per ribadire con la massima forza la centralità del merito. Tra mille altre misure perché allora non immaginare di porre per molti pubblici concorsi così come per l’iscrizione agli albi professionali la condizione vincolante di aver conseguito la promozione annuale con una certa media già nel corso degli studi secondari e poi un voto di laurea non inferiore a 110? Non solo ciò farebbe riguadagnare di colpo alla scuola e agli insegnanti gran parte del prestigio perduto, ma sarebbe un forte incentivo a migliorare il rendimento scolastico generale. Inoltre, da un lato costituirebbe un qualche ostacolo alla pratica della raccomandazione nei concorsi (gli svogliati o i somari non potrebbero neppur presentarsi), dall’altro accrescerebbe, probabilmente, il livello culturale delle amministrazioni e delle professioni. In complesso rappresenterebbe un esempio significativo di meritocrazia.
2) Ancora: per combattere l’ignoranza e la cattiva informazione da Internet servono la lettura, i libri, i giornali, trasmissioni radiotelevisive ad hoc. Dunque detassare radicalmente tutto ciò che riguarda l’editoria cartacea, mettere a disposizione gratuita locali di proprietà pubblica per chiunque voglia aprire una libreria, un cinema o un’attività teatrale; infine obbligare tutti i concessionari di frequenze televisive a dedicare un certo monte ore settimanale, anche in prima serata, a trasmissioni di carattere informativo-documentario e culturale.
3) Un grande privilegio di cui oggi godono le élite, dal quale nasce un fortissimo e multiforme effetto di separazione sociale e culturale rispetto all’esistenza dei «più», riguarda la qualità dello spazio urbano che esse occupano, rappresentato dal centro o dai quartieri residenziali. Privilegio che ha il suo rovescio nella ghettizzazione/degrado delle zone periferiche. Per contrastarlo bisognerebbe cominciare a stabilire per legge un paio di vincoli obbligatori per i regolamenti e i bilanci comunali: al fine di arrestare lo spopolamento o il diverso popolamento dei centri storici il divieto di mutare al loro interno tutte le destinazioni d’uso degli edifici e l’oggetto delle licenze commerciali; allo stesso tempo l’obbligo di destinare una quota fortemente maggioritaria di tutta la spesa dei Comuni alla manutenzione, ai servizi e al miglioramento delle periferie.
4) Un momento di forte separazione identitaria riguarda l’ambito delle istituzioni. A torto o a ragione la grande massa dei cittadini se ne sente esclusa anche perché quasi mai ne intende o ne condivide le decisioni. Ma almeno in un ambito decisivo si potrebbe intervenire con relativa facilità: quello della giustizia, di cui tra l’altro è molto sentito l’aspetto diciamo così castale. Ora, sebbene la Costituzione proclami che la giustizia «è amministrata in nome del popolo» tuttavia la presenza del «popolo» nei tribunali è pressoché nulla. Si limita a quella in Corte d’assise, e solo per reati assai gravi, di sei giurati che affiancano il presidente e il giudice a latere essendo però, come si capisce, in tutto e per tutto subalterni a questi, in pratica delle pure figure di contorno. Radicalmente diverso è il caso della giuria nei sistemi di «common law», specie negli Stati Uniti, dove dodici cittadini decidono in materia di giustizia penale e anche civile (si pensi alle cause per danni con relativo risarcimento) in assoluta autonomia. Le inevitabili controindicazioni che anche qui ci sono non sminuiscono il fortissimo significato anticastale e «popolare»di un sistema del genere.
Quelli che ho fatto sono solo degli esempi, approssimativi quanto si vuole, di direzioni verso cui ci si potrebbe muovere per evitare l’aggravarsi delle fratture sociali ma forse più ancora psicologiche e culturali che stanno lacerando il tessuto sociale del nostro Paese. Il lettore può comunque essere sicuro che cadranno assolutamente nel vuoto.

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