19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Anotonio Polito

Gli elettori sembrano avere nostalgia del vecchio bipolarismo destra-sinistra: l’effetto più evidente è la trasformazione dei Cinque Stelle in terza forza


Quando il presente delude, il passato risplende. Perciò questi sono tempi di amarcord. Salvini ricorda con struggimento le cabine telefoniche con i gettoni. Di Maio riscopre le virtù del Comitato Centrale e della forma-partito, prima o poi riaprirà le Frattocchie. E gli elettori sembrano avere nostalgia del vecchio bipolarismo destra-sinistra, proprio quello che l’auto-proclamata Terza Repubblica aveva dichiarato sepolto, e ormai sostituito da un nuovo bipolarismo tra popolo ed élite.
Le elezioni regionali che si succedono, per quanto limitate per numero di votanti e valore politico generale, sembrano avere tutte un segno univoco: la ripresa del centrodestra e, in misura minore, del centrosinistra. Si tratta, è vero, di coalizioni molto ampie, di assemblaggi complicati, e il frazionamento interno è grande: non prefigurano ancora alleanze abbastanza solide e coese da prendersi il Paese e governarlo. Ma la direzione di marcia dell’elettorato è abbastanza chiara. Nelle regionali in Sardegna e in Abruzzo centrodestra e centrosinistra sommati rappresentano l’80% dei voti totali, mentre un anno fa, alle politiche, nelle stesse due regioni si fermavano al 50%.
E il centrodestra ha vinto nettamente sia dove Salvini ha sfondato, come in Abruzzo (27,5%), sia dove non ha affatto sfondato, come in Sardegna (11,5%). Il movimento elettorale è così macroscopico che, se verrà confermato dall’imminente voto in Basilicata, poi da quello del Piemonte e infine delle europee, diventerà un fatto politico di prima grandezza, che i partiti non potranno più ignorare.
L’effetto più evidente di questo ritorno del bipolarismo d’antan è la progressiva trasformazione dei Cinque Stelle in terza forza. Lasciamo stare i complicati calcoli elettorali con cui i leader del Movimento tentano sempre di edulcorare le sconfitte, facendo paragoni con epoche precedenti talvolta preistoriche (in Sardegna cinque anni fa il M5S non si presentò nemmeno alle regionali, dunque oggi può presentare come una crescita perfino lo striminzito 11,2% appena preso, che confrontato al 42% di un anno fa alle politiche è invece una Caporetto). Guardiamo la sostanza: i Cinque Stelle sono arrivati terzi in Abruzzo, e terzi in Sardegna. Il sistema di voto delle europee, dove ognuno va da solo con il proporzionale, potrà mitigare questo effetto, ma solo se Di Maio e Di Battista non scenderanno sotto la linea di galleggiamento di un quarto dei voti popolari. In caso contrario ci troveremmo di fronte a una regressione del movimento, che tornerebbe a essere una forza di testimonianza e di protesta, sempre grande ma non più di governo, destinata dunque prima o poi all’opposizione.
Il corso degli eventi sta insomma smentendo l’ipotesi strategica su cui si era fondata la strana alleanza giallo-verde. Salvini e Di Maio avevano ritenuto conveniente siglare il contratto di governo, nonostante le abissali differenze tra di loro, nella speranza che potesse durare il tempo necessario a mangiarsi ciascuno il partito concorrente nella propria metà di campo, cioè Forza Italia e il Pd. Per poi, a cose fatte, vedersela in una sfida elettorale tra i due nuovi poli del firmamento politico italiano. Nella struttura profonda del Paese, le più antiche e tradizionali alleanze stanno mostrando invece segni di resilienza e di radicamento forse sottovalutati. Perfino il centrosinistra, nella versione extralarge che propugna Zingaretti (vedi la candidatura Zedda in Sardegna, e l’ipotesi Pisapia per le europee), può riprendersi un po’ alla volta l’agibilità politica che sembrava naufragata nel voto di marzo.
Ma questo ritorno del bipolarismo interpella soprattutto Salvini. È perfettamente comprensibile che il leader leghista recalcitri a rompere l’alleanza di governo: finché è possibile, non vuole modificare una situazione che gli sta portando voti e successi. Ma forse anche per lui (come accadde per Renzi nella passata legislatura), arriverà il momento di scoprire il limite fisiologico dell’uomo solo al comando, di fronte al reticolo di interessi, tradizioni, e culture di cui è fatta un’Italia da sempre politicamente pluralista e socialmente composita. Nell’elettorato di centrodestra, che sembra confermarsi maggioritario nel Paese, esiste infatti una componente conservatrice e pragmatica che non sparirebbe neanche se sparisse Forza Italia, e che alla Lega chiede le cose che ha sempre chiesto al centrodestra, e cioè meno tasse e più cantieri, più lavoro e meno vincoli. È un nocciolo duro che aspetta risultati, che magari ha lasciato Berlusconi per Salvini proprio perché non li vedeva arrivare, ma che alla lunga rischia di non averli neanche da lui, se resta al governo con i Cinque Stelle nel pieno di quella che appare già come una dura recessione economica. Basti guardare alle primarie del centrodestra svoltesi domenica a Bari e Foggia, affollate come non mai, che hanno segnato la sconfitta dei due candidati della Lega a favore di esponenti più «centristi».
Gli elettori sono spietati: guardano sempre avanti. È come se lo stop agli sbarchi e il reddito di cittadinanza fossero stati già scontati, sul modello di ciò che succede in Borsa, dove si compra sugli annunci e si vende sulle notizie. E nuovi annunci non ce ne sono, né se ne vedono all’orizzonte. Ecco perché, per quanto pochi, i tre milioni di elettori che hanno parlato nelle ultime due settimane andrebbero ascoltati molto attentamente. Soprattutto da chi ha vinto.

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