22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Mieli

Nei suoi 160 anni di vita lo Stato ha «negoziato con i nemici» infinite volte e non lo ha mai smentito. Ma la politica non ha affrontato la questione nel suo insieme

Qui di certo, incontrovertibile e definitivo c’è solo che nei codici del nostro Paese (e, a dire il vero, di tutti gli altri) il reato di «trattativa» non esiste. Sicché per perseguire un supposto negoziato tra la mafia e l’autorità pubblica italiana che si sarebbe protratto oltre l’intero arco degli anni Novanta, alcuni sostituti procuratori hanno incriminato politici e alti ufficiali dei carabinieri per «minaccia a organi dello Stato» (a norma dell’articolo 338 del Codice penale). Risultato: prima una sentenza di condanna e adesso una, in secondo grado, d’assoluzione. I togati dell’accusa e i loro simpatizzanti si consolano così: «Comunque è emerso chiaramente che la trattativa c’è stata». E si domandano: «Come è possibile che siano stati condannati i mafiosi ma non carabinieri e politici?». La risposta è semplice: se il reato fosse stato quello (ripetiamolo: inesistente) di trattativa, forse le cose sarebbero andate diversamente. Però, dal momento che nel tribunale di Palermo si discuteva di «minacce», è probabile si possa dimostrare che solo Antonino Cinà e Leoluca Bagarella abbiano provato ad impaurire la loro controparte statuale. Ma non ne discende automaticamente che Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno abbiano commesso lo stesso reato associandosi alle minacce di Bagarella, Cinà e altri mafiosi. Fosse accaduto, si dovevano esibire delle prove. Ma evidentemente la corte ha ritenuto che mancassero evidenze di tali «minacce». Di più: che fossero del tutto assenti.
Dal giorno successivo al verdetto, gli inquirenti — e coloro che (a prescindere dalla sentenza) hanno fatto propria la loro causa — si consolano dicendo: «vedrete che dalle motivazioni finali verrà fuori che la trattativa c’è stata». Possibile. Più che possibile. Nei suoi centosessant’anni di storia lo Stato italiano ha «negoziato con i nemici» infinite volte. Più recentemente con i brigatisti rossi (caso Sossi), con i terroristi palestinesi (tramite il colonnello Giovannone), con i camorristi (caso Cirillo). Talvolta la Repubblica ha concesso poi attestati di pubblica gratitudine nei confronti di chi, come Giovannone, trattando ha evitato lutti al Paese. In altri casi si è un po’ vergognata di questo genere di commerci. Ma non ha mai smentito che fossero avvenuti.
Un discorso a parte merita il caso di Marcello Dell’Utri, condannato in altra sede ma stavolta assolto con una formula più ampia rispetto a quella usata per i carabinieri. Nell’ipotesi dell’accusa, Dell’Utri avrebbe minacciato Silvio Berlusconi (in concorso con la mafia) per ottenere alleggerimenti di pena o di trattamento nei confronti di malavitosi catturati. Anche in questo caso non è venuta fuori nessuna evidenza e il discorso dovrebbe chiudersi qui.
Resta però aperto un problema per così dire storiografico. Secondo una puntuale ricostruzione di Giuseppe Pipitone (sul «Fatto quotidiano») Cosa nostra, tramite la trattativa, avrebbe comunque ottenuto almeno cinque cedimenti da parte dello Stato. Il primo da Berlusconi che il 13 luglio 1994 inserì nel decreto Biondi un comma «che obbligava i pm a svelare le indagini per mafia dopo tre mesi, di fatto vanificandole». Una norma, sottolinea Pipitone, «di cui non si accorse quasi nessuno». Forse anche perché il decreto restò in vigore per meno di dieci giorni e fu ritirato per l’opposizione di Di Pietro in compagnia dei colleghi di Mani Pulite.
Destinato a maggiore longevità fu, l’anno successivo, il ddl di Lamberto Dini che rendeva «più difficile da applicare l’arresto per i reati di mafia» per il fatto che «da obbligatorio diventava facoltativo». Pipitone precisa non senza malizia che questa legge fu votata da centrodestra e centrosinistra (contrari solo Verdi e Lega). Terzo cedimento è quello imputato al guardasigilli Giovanni Maria Flick che, per conto del governo Prodi, nel 1997 dispose la chiusura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara. Il quarto è riconducibile a Piero Fassino e Giorgio Napolitano, i quali con la legge che prese il loro nome, imposero ai collaboratori di giustizia di raccontare tutto quello che sapevano entro sei mesi: non era «l’abolizione dei pentiti come chiedeva sempre Riina col papello», ma poco ci mancava, chiosa Pipitone. Con la quinta concessione riecco Forza Italia che, tornata al potere, «trasformò il 41 bis da misura straordinaria e provvisoria a stabile». Parrebbe un inasprimento? Macché. La maggiore severità era solo apparente, sostiene Pipitone dal momento che «una volta stabilizzato, il regime del carcere duro per mafiosi è pure più semplice da revocare».
Al di là di assoluzioni e condanne, questa versione degli accadimenti — ne siamo sicuri — è destinata ad entrare con impercettibili varianti nei libri di storia e nel comune sentire del nostro Paese. Come è accaduto per la vicenda di Salvatore Giuliano, il tentato golpe del 1964, le stragi degli anni Settanta, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e molti altri casi. Tutti «misteri» riconducibili nella vulgata corrente a settori «deviati» dello Stato. I politici coinvolti — in particolare quelli di centrosinistra — si sono fin qui prodotti al massimo in puntualizzazioni su quel che riguardava la loro persona o quella di loro familiari. Ma — tranne uno: Emanuele Macaluso — sono stati tutti concordi nel non affrontare la questione nel suo insieme, nel trascurare il danno che si è andato creando all’immagine della loro storia. E tutto lascia credere che anche stavolta andrà allo stesso modo.

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