20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paol Mieli

Dicono di voler tornare ai tempi antichi, ma nel nome del recupero dello «spirito delle origini» potrebbero fare la fine dei discepoli di Jonestown


Negli anni Settanta la setta dei People’s Temple conobbe grandi fortune in parte degli Stati Uniti. Improvvisamente, il 12 novembre 1978, a Jonestown in Guyana, il reverendo Jim Jones che di quella congregazione era il capo, convinse 909 suoi discepoli a suicidarsi in massa. Perché? Era accaduto che un deputato del Congresso, Leo Ryan, incuriosito per il fatto che Jones e i suoi si fossero trasferiti nella giungla della Guyana, aveva indagato scoprendo che l’esercizio del potere all’interno della comunità si era assai discostato dalle promesse iniziali, al punto da produrre «comportamenti irresponsabili, distruttivi» e notevoli abusi. Ryan era stato ucciso prima di poter rivelare al mondo quel che aveva visto — anche se aveva fatto in tempo a confidarne l’essenziale ad alcuni giornalisti — e Jones pensò che fosse necessario tornare allo «spirito degli inizi» e che, per «difendersi dall’invasione del male», servisse quel genere di catarsi. Persuase i suoi adepti a ingerire del cianuro, si uccise lui stesso (sparandosi) e ritenne che in quel modo il suo progetto fosse salvo. A torto. L’America commentò l’episodio con raccapriccio.
In piccolo qualcosa del genere (ancorché, ovviamente, di tipo diverso) sta accadendo qui in Italia. A Venaria Reale, comune piemontese, il pentastellato Roberto Falcone che aveva trionfato nella corsa a sindaco del 2015 con il 70 per cento dei voti, in anticipo di un anno sul successo torinese di Chiara Appendino, ha gettato la spugna.
Tre giorni fa – dieci mesi prima della regolare scadenza del mandato – è stato costretto a dimettersi a causa (parole sue) «del reiterarsi di atteggiamenti e comportamenti irresponsabili e distruttivi» della maggioranza. Maggioranza composta, beninteso, da suoi compagni di partito. Molti dei quali, secondo Falcone, affetti da «protagonismo»: la capogruppo Raffaela Cantella che aveva sbattuto la porta già nel 2017; il vicesindaco nonché assessore al Bilancio Angelo Castagno (dimessosi a maggio); il Presidente del Consiglio comunale Andrea Accorsi con i consiglieri Luca Stasi, Rosa Antico e Giovanni Battafarano che hanno fatto mancare il voto per la variazione di bilancio e se ne sono andati dalla compagine grillina (poco prima di essere espulsi). Mancava la «democrazia interna», si è giustificato Stasi. Può darsi che i ribelli avessero ragione, che Falcone si sia lasciato andare ad un atteggiamento ducesco. Ma è quasi inspiegabile come e perché abbia deciso di «suicidarsi» dal momento che è assai improbabile possa, a breve, tornare alla guida di Venaria. E non può essere una coincidenza che un episodio del genere sia accaduto nel momento in cui in tutta Italia il movimento appare terremotato.
Tali scosse telluriche – la pubblicazione di un libro di Alessandro Di Battista assai polemico tra le righe con ministri e sottosegretari del M5S, qualche roboante presa di posizione del Presidente della Camera Roberto Fico – annunciano per il Movimento Cinque Stelle una strana stagione. Strana e decisiva per le sorti della legislatura, la cui fine anticipata aprirebbe la strada a Matteo Salvini e ai partiti di destra (in primis quello di Giorgia Meloni) a lui collegati. Eppure una senatrice, Paola Nugnes, decide che è proprio questo il momento giusto per lasciare il M5S, due suoi colleghi di Palazzo Madama, Elena Fattori e Matteo Montero, che si danno ogni giorno minor cura di nascondere il proprio dissenso da Luigi Di Maio, talché la maggioranza necessaria al governo (161 voti) appare a rischio. Non si può dire neanche che si stia stabilendo un asse tra Di Battista e Fico. E neppure tra i seguaci dei due c’è unanimità: Dalila Nesci, pur devota al Presidente della Camera, protesta contro le «elucubrazioni in pubblico» all’indomani di un’intervista a Repubblica del suo supposto capocorrente. Minimo comun denominatore in questo marasma è uno solo: tutti dicono di voler tornare ai tempi antichi. Sicché potrebbe accadere che, nel nome di un recupero dello «spirito delle origini», siano proprio i parlamentari Cinque Stelle a provocare un suicidio di massa come quello di Jonestown.
Ma, reverendo Jones a parte, è realistico il ritorno al passato del M5S? A qualsiasi osservatore dell’attuale fase politica appare evidente che – ammesso sia possibile un’improvvisa, unanime riconversione dell’intero movimento agli stati d’animo dell’aprile 2008 – difficilmente i grillini ritroverebbero un elettorato disponibile a sorvolare sulla loro recente prova di governo. Quando andranno alle prossime elezioni politiche, siano esse tra qualche settimana, mese o anno, è su quel che hanno fatto (o non hanno fatto) nei ministeri che verranno giudicati.
Senza contare che – per evidenti motivi – la denuncia di un presunto inquinamento dello spirito rivoluzionario delle origini si rivelerebbe del tutto inefficace se non fosse accompagnata dall’accantonamento dei responsabili di tale misfatto (Di Maio? Ministri, sottosegretari, Presidenti di Commissione?) e alla «punizione» di chi lo ha reso possibile (Davide Casaleggio?).
Il ritorno ai tempi del V Day porrebbe poi il Movimento Cinque Stelle in contrasto con la componente «tecnica» del proprio governo (a cominciare dal Presidente del Consiglio) e in un rapporto non facile con i futuri possibili interlocutori della sinistra tutta. Forse, più agevole con la parte più radicale quella che (nell’intervista a Daniela Preziosi sul «manifesto» in cui proponeva nuovi modelli organizzativi) Stefano Fassina ha efficacemente ribattezzato «sinistra dell’1 per cento». Ma si tratta appunto di una frazione politica assai minoritaria. E dovrebbe dire qualcosa il fatto che – secondo quel che ha rivelato il quotidiano spagnolo El Diario – il Gruppo dell’estrema sinistra europea di cui fanno parte lo spagnolo Podemos, il greco Syriza, France Insoumise di Jean Luc Mélenchon e la tedesca Die Linke, abbia testé respinto la domanda di iscrizione del partito di Di Maio. Ancora più problematico – al di là delle esigenze tattiche su cui insistono Andrea Orlando, Goffredo Bettini, Elisabetta Gualmini e Gianni Cuperlo — apparirebbe il rapporto di un M5S «tornato alle origini» con la componente Pd di Paolo Gentiloni, Carlo Calenda e forse persino quella raccolta attorno a Nicola Zingaretti. Talché tra qualche tempo potremmo constatare che Di Battista, Fico e gli altri irrequieti del M5S – al di là delle intenzioni – saranno passati alla storia per aver spalancato le porte a Salvini e averle chiuse a Zingaretti. Provocando nel loro movimento un suicidio collettivo come quello della Guyana. Involontariamente, a differenza del reverendo Jones.

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