Fonte: Corriere della Sera
di Pierluigi Battista
C’è una bulimia narrativo-informativa che consuma intercettazioni rubate e altro materiale di indagini che poi no portano a risultati concreti, che si ricordino
Ma davvero c’è qualcuno in Italia, addetti ai lavori a parte, che sappia che fine hanno fatto le megainchieste che con il concorso mediatico di centinaia di migliaia di intercettazioni avrebbero dovuto scoperchiare il malaffare, le retate delle «cricche», i «sistemi», le «consorterie trasversali», le camarille criminali, tutto un rimescolio di ambienti, sottoboschi, reti, P4, P5, P6, P144, Vallettopoli 1 e Sanitopoli, Vallettopoli 2 e inchieste che «fanno tremare i vip», logge e loggette, «indagini a tappeto» che avrebbero potuto colpire al cuore il potere dei delitti e degli affari? In sincerità, senza consultare Google, chi si ricorda dei reati contestati, delle condanne, delle archiviazioni, nelle inchieste in cui si volevano ascoltare come persone informate dei fatti, pontefici e capi di Stato, sottosegretari e aspiranti dive della tv, politici «occulti» e «terzi livelli» di un «sistema criminale»? Niente, nessuno ricorda niente. Restano solo detriti, battute rubate al telefono, «i furbetti del quartierino», «la sguattera del Guatemala», o battute mai pronunciate («la Merkel culona inchiavabile») che sono diventate vere anche se sono leggende metropolitane immortalate dai media: a quale inchiesta appartenevano, quale scandalo avevano dissotterrato, forse il Mose? No. Expo? Nemmeno. Qualche G8? Neanche. Un po’ di Rimborsopoli? Forse, ma quale? L’opinione pubblica è diventata bulimica. Ama l’intreccio di narrazioni giudiziarie e giornalistiche, le «inchieste-reportage» come le ha definite il magistrato Piero Tony, condite di dialoghi «dal vero», trame, turpiloqui, ambizioni, ricatti. Grandi affreschi «per conoscere», anche se la conoscenza di un ambiente, di una persona, di un gruppo non dovrebbe essere compito della magistratura che deve concentrarsi su ipotesi di reato circoscritte, fatti, documenti, responsabilità penali personali. Aiutate da un giornalismo pigro e fotocopiatore, dall’emergere di reati vaporosi, mai resi leggibili in modo inequivocabile, dal nome insieme altisonante e pieno di echi letterari («traffico di influenze»: geniale invenzione), le inchieste appagano come una serie tv ben costruita. Poi, non resta niente, nemmeno un ricordo, solo intrecci telefonici spudorati. E reputazioni distrutte. Oblio assoluto, però, anche per i magistrati protagonisti. Almeno una piccola soddisfazione.