17 Gennaio 2025
Biden Trump

L’attuale presidente americano rivendica il successo in Medio Oriente. Ma un ruolo importante lo ha giocato il tycoon

«Trump ora vuole andare avanti con la normalizzazione dei rapporti Israele-Arabia Saudita: cosa che richiede forme di riconoscimento diplomatico dei palestinesi. L’opposto dell’annessione di Gaza che i radicali pensavano di avere in tasca. Presto l’estrema destra si renderà conto che il presidente Usa da lei appoggiato, Trump, chiede e ottiene da Netanyahu tutto quello che è stato negato a Biden». L’analisi del quotidiano progressista israeliano Haaretz, che trova conferma in un post nel quale Trump si propone di procedere speditamente con l’ampliamento degli accordi di Abramo tra i Paesi arabi e lo Stato ebraico, è uno squarcio interessante che aiuta a capire i ritardi nella ratifica della tregua da parte del governo israeliano e il grande valore della cooperazione Biden-Trump in questo negoziato. Una fotografia che, però, mostra anche le difficoltà e i limiti che incontrerà, almeno in Medio Oriente, la «presidenza imperiale» di Trump, la sua strategia — apparsa fin qui vincente — di incutere timore per poi negoziare da posizioni di forza.
Biden rivendica il merito della tregua e a ragione: l’intesa ricalca il piano proposto sette mesi fa ed è anche frutto della sua pressione per un accordo separato di Israele con gli hezbollah, per isolare Hamas. Ma è anche vero che, secondo un detto americano, gli mancavano dieci centesimi per fare un dollaro. Quegli spiccioli ce li ha messi Trump. Che ora dovrà investire molto di più per sviluppare l’intesa. E non farla deragliare.
Dietro la facciata dello scontro verbale tra il presidente uscente e quello che giurerà fra tre giorni, c’è la realtà di una cooperazione tra due diverse amministrazioni che non è mai stata così intensa e produttiva, nonostante la distanza abissale — politica, ideologica, di stile — tra i due leader. Lo ha riconosciuto lo stesso Biden che, pur lanciando nel suo messaggio finale alla nazione un monito circa i rischi di una deriva oligarchica dell’America se avranno via libera l’autoritarismo di Trump e il potere del «complesso tecno-industriale» che sta crescendo sotto la sua ala, ha detto che per Gaza i suoi uomini e quelli di Trump hanno lavorato come un team unico.E, in effetti, lontani dai riflettori della lotta politica, l’inviato di Biden per la questione israelo-palestinese Brett McGurk e quello di Trump, Steve Witkoff, hanno lavorato gomito a gomito, senza tensioni. Sono andati avanti anche quando la decisione di Trump di azzerare tutti i dipendenti della Casa Bianca — non solo il personale arrivato con Biden, ma anche i funzionari di carriera — ha portato a una rappresaglia del presidente con conseguente, parziale interruzione delle comunicazioni.
Ma il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha sempre informato il suo successore repubblicano, Mike Waltz, sull’andamento dei negoziati e ha concordato le mosse successive, mentre Witkoff, parlando a Mar-a-Lago, a un passo da Trump, è stato esplicito: il negoziato è nelle mani di McGurk e sta facendo progressi.Mentre McGurk è stato un maestro di pazienza e di cura nel definire, limare, correggere, i dettagli di un’intesa molto articolata, Witkoff è stato essenziale, con i suoi rudi modi da immobiliarista del Bronx, nel convincere Netanyahu che, se non si fosse arrivati a un’intesa prima dell’inaugurazione di lunedì a Washington, la furia preannunciata da Trump si sarebbe scaricata anche su di lui e non solo su Hamas.
La resistenza e la minaccia di dimissioni con cui i ministri dell’estrema destra, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir hanno cercato di bloccare l’adesione di Netanyahu alla tregua, mostrano, però, i limiti dell’accordo e la scarsa presa dell’arma preferita del leader repubblicano. Waltz ha definito la tregua figlia dell’«effetto Trump». Ma lo strumento di persuasione da lui usato per imporre le regole del gioco — fear, incutere paura — può funzionare quando minaccia dazi sui prodotti canadesi o sfida la Danimarca sulla Groenlandia (offrendo ponti d’oro al governo autonomo di un’isola enorme con una popolazione minuscola). E sembra funzionare anche con Hamas, ma solo perché la sua leadership è stata decimata da Israele con l’appoggio di Biden. Ma poi sbatte contro il consueto ostacolo dell’ultradestra religiosa e dei coloni.
Trump ha fretta di imporre i suoi nuovi paradigmi «muscolari», non solo nella pubblica amministrazione e nella politica interna americana, ma anche a livello internazionale. Potrebbe riuscirci con la debole Europa e gli alleati asiatici. Forse anche con la Cina che vive la sua prima crisi da interruzione dello sviluppo e teme di perdere, coi dazi, buona parte del mercato americano, il più importante: una partita, quella con Pechino, nella quale Trump può giocare anche la carta TikTok, la popolarissima rete sociale cinese che il Congresso ha deciso di mettere al bando ma che il neopresidente vorrebbe salvare.
In Medio Oriente e in Ucraina, però, è più dura: Trump ha il vantaggio di arrivare alla Casa Bianca quando le parti dei due conflitti sono ormai sfiancate da guerre che hanno comportato perdite umane e materiali gigantesche: una situazione che dovrebbe favorire la fine delle ostilità. Ma in Israele il tentativo di ultimatum di Smotrich (tregua accettata solo se alla fine riprende la guerra fino alla distruzione totale di Hamas) equivale a una volontà di guerra permanente. O di vero genocidio, visto che, come spiega il segretario di Stato Usa, Blinken, Hamas ha già ricostituito tutti i suoi organici con giovani reclute. Mentre in Europa, se Zelensky sente il fiato sul collo di Trump ed è pronto a trattare, Putin, leader di un Paese il cui popolo è costretto a vivere sotto un pugno di ferro ed e abituato a resistere a privazioni anche estreme, potrebbe rivelarsi un osso più duro del previsto.

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