23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

Erdogan turchia

di Paolo Mieli

Le elezioni non sono l’ingrediente unico di una democrazia (altrettanto fondamentale è l’attenzione alle regole dello Stato di diritto), ma è doveroso mettere in risalto che la libertà nell’esercizio del voto è la fonte battesimale di ogni regime democratico. La presa d’atto del responso delle urne è un dovere

Quattro, cinque ore di troppo. Quattro, cinque ore, la notte di venerdì scorso, nel corso delle quali le cancellerie europee hanno evitato di prendere energicamente le distanze dal colpo di Stato che era in atto in Turchia. Un tempo lunghissimo nel quale quelle cancellerie sono rimaste inerti a valutare «l’evolversi dell’iniziativa militare». Lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura, dieci anni fa) ha raccontato di aver seguito gli eventi alla televisione e di aver atteso invano quella presa di posizione. Pamuk ha ricordato di essere da tempo un irriducibile avversario «per moltissime ragioni» del governo turco ma di aver immediatamente messo a fuoco il concetto che «i colpi di Stato militari non saranno mai la soluzione ai problemi della Turchia». Nella sua vita, ha raccontato, di putsch ne ha visti tre andati «a buon fine» e tre no. Ma tutti «hanno creato alla Turchia problemi maggiori e reso le persone meno felici».
Pamuk non considera irrilevante il fatto che Recep Tayyip Erdogan il potere lo ha conquistato con libere elezioni e, per quanto possa essere biasimevole questo o quell’atto della sua politica (moltissimi, a dire il vero), dovremmo essere abituati a pensare che solo una tornata elettorale altrettanto regolare potrà un giorno detronizzarlo. Se poi Erdogan abolirà il ricorso alle urne, allora e solo allora potrà essere contemplato il ricorso alla forza. Ma fino a quel momento — come ha ricordato, sia pur tardivamente, Obama al termine di quella notte arroventata — il «governo democraticamente eletto» deve essere difeso. Sempre e comunque.
Dopo che il presidente degli Stati Uniti si è deciso a dire queste cose di elementare buon senso (sia pur molto tardivamente, ripetiamo), i capi di Stato europei hanno iniziato a balbettare qualcosa di analogo, raccomandando per giunta a Erdogan di «dimostrare moderazione» nei confronti di coloro che avevano ordito l’intento. Forse ritenevano così di aver risolto ogni cosa e di essersi messi a posto la coscienza. Ma, ad ogni evidenza, il caso non è chiuso. Nel senso che quelle quattro, cinque ore di troppo — «vergognose» le ha definite Can Dündar, direttore del quotidiano Cuhmuriyet, altro grande nemico di Erdogan — richiedono adesso una valutazione supplementare.
Detto che, come ricordava ieri su queste pagine Luigi Ferrarella, le elezioni non sono l’ingrediente unico di una democrazia (altrettanto fondamentale è l’attenzione alle regole che garantiscono lo Stato di diritto), è doveroso però mettere in risalto che la libertà nell’esercizio del voto è la fonte battesimale di ogni regime democratico. Ne discende che la presa d’atto di quel che si è deciso nelle urne è un dovere di ogni persona o entità statuale che si ispiri ai principi della liberaldemocrazia. E nel caso vengano conculcati gli altri diritti? Si deve aver fiducia nei popoli, i quali popoli alla successiva tornata elettorale saranno liberi di sconfiggere nel voto chi, in modo più o meno grave, ha intaccato le loro libertà. Solo la compressione del diritto di voto, ripetiamo, può giustificare una ribellione in armi. Purtroppo, però, noi da tempo siamo abituati ad usare — quando si tratta di musulmani che hanno vinto le elezioni — uno standard diverso da quello a cui ricorreremmo per un qualsiasi altro Paese.
Lo abbiamo fatto per l’Algeria nel 1992 e per l’Egitto nel 2013. In entrambi i casi il suffragio a favore di formazioni islamiche è stato sovvertito da un colpo di Stato e noi, regolarmente, abbiamo salutato con un applauso quei sovvertimenti. Nel gennaio del 1992, tra il primo e il secondo turno delle elezioni algerine, constatata la pressoché certa vittoria del Fronte islamico di salvezza, i militari presero il potere e insediarono alla guida del Paese un anziano leader della resistenza ai francesi, Mohamed Boudiaf, che sarebbe stato ucciso sei mesi dopo lasciando in eredità al Paese un decennio e più di scontri sanguinosi. Ai primi di luglio del 2013 il presidente egiziano Mohamed Morsi, regolarmente scelto dagli elettori, fu deposto dai militari di Abdel Fattah al Sisi che si è poi insediato sul trono da cui a tutt’oggi regna. Ed è irrilevante che, come ha fatto osservare lo scrittore egiziano dissidente Alaa al Aswani, i soldati del suo Paese approfittarono della circostanza che, a fine giugno, contro Morsi erano scesi in piazza molti manifestanti e che perciò l’iniziativa di al Sisi ebbe un sostegno popolare mancato ai golpisti turchi di venerdì scorso.
Non è questo che conta, ha ammonito al Aswani. Conta il fatto che l’Europa si stia abituando a considerare le elezioni come qualcosa di non decisivo. Qualcosa che non ha un valore in sé ma che, in qualche caso, si può rimettere in discussione nei modi più diversi. Solo nei Paesi a maggioranza musulmana? Chissà. Ieri è accaduto in Turchia, domani potrebbe ripetersi in Ungheria o in Polonia. Se non ci piace chi ha vinto le elezioni, venga pure un colpo di Stato.
E qui giungono al pettine alcuni nodi che si potevano individuare già un mese fa ai tempi della Brexit o di qualche voto come quello presidenziale in Austria o amministrativo in Francia e in Italia. In un articolo sul Sole 24 Ore, Luca Ricolfi ha riferito di alcuni commenti ascoltati a casa di amici dopo il referendum in Gran Bretagna e l’elezione di Chiara Appendino a sindaco di Torino. Gli parve di cogliere una qualche «animosità contro il suffragio universale», o meglio contro il popolo tout court da parte di una «élite che lo rispetta (il popolo) quando “fa la cosa giusta” ne prende commiato quando fa quella sbagliata». Gli elettori sono diventati un insieme di essere umani che «benpensanti e governanti illuminati» considerano, sotto sotto, «cieco e abbindolabile, fino al punto di votare contro i propri interessi». Sicché il loro voto vale sì, ma fino a un certo punto.
Queste acute notazioni di Ricolfi ci inducono a riflettere meglio sui sentimenti di «attesa» che nella notte di venerdì scorso hanno paralizzato le cancellerie europee e quella statunitense. Gli eletti da un popolo che, secondo i «governanti illuminati» dell’Occidente, ha fatto la «scelta sbagliata» sono considerati dal consesso internazionale rimuovibili per via putschista. Quello stesso consesso che in tempi normali con essi stringe patti, li impegna in alleanze militari, cerca sponde per far fronte a grandi emergenze, al presentarsi sulla scena del primo golpista di passaggio è pronto ad abbandonarli al loro destino. Non è un buon modo per essere percepiti come affidabili nelle intese che saremo costretti a stipulare. E rende un po’ ridicole le nostre raccomandazioni a che si comportino virtuosamente nel dopo golpe.

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