Fonte: Corriere della Sera
di Federico Fubini
A marzo scade l’acquisti di titoli e una banca centrale non può risolvere da sola i problemi. Draghi ha fatto capire che la Germania deve spendere e investire di più
I grandi banchieri centrali non devono essersi mai aspettati molta gratitudine, neanche dopo otto anni in cui mercati e i governi si sono aggrappati a loro per non affondare. Forse però la nebulosa di risentimenti e di reticenza che oggi li circonda non l’avevano vista arrivare neppure loro. Alla Federal Reserve di Janet Yellen ormai nessuno crede più fino in fondo, dopo mesi in cui la banca centrale americana segnala e poi ogni volta rinvia un aumento dei tassi. Mark Carney, il governatore della Bank of England, è al centro di una strana polemica a Londra per aver paventato in caso di Brexit una catastrofe che (per ora) non si è prodotta. Nel frattempo a Tokyo il suo collega Haruhiko Kuroda viene discusso per aver tagliato i tassi d’interessi sotto zero, una ricetta che per il Giappone decisamente non ha funzionato. Questi pacati economisti dotati del potere di creare migliaia di miliardi di dollari con i loro software, sempre di più, vengono visti come uomini e donne fallibili. Sembra strano che non fosse così anche prima.
Eppure solo ora si inizia ad accettare qualcosa che i banchieri centrali sapevano di se stessi dall’inizio: da soli, non riusciranno mai a chiudere le fratture esposte dalla grande recessione, e a riportare la crescita, l’inflazione e il livello di redditi da lavoro di prima. Creare sempre nuovi dollari, sterline, yen e euro – o tagliare i tassi al punto che bisogna pagare per poter prestare denaro – non ricostruirà mai sistemi produttivi moderni. È su questo sfondo in movimento che ieri Mario Draghi doveva iniziare a segnalare i piani della Banca centrale europea. A marzo scade il suo ciclo di acquisti di titoli, un’operazione da 80 miliardi al mese alla quale l’Italia, il Portogallo, la Spagna e anche la Francia devono la propria stabilità finanziaria. Ieri Draghi ha tenuto le carte coperte, anche perché non c’è accordo al vertice della Bce. Ha ricordato per l’ennesima volta che gli acquisti continueranno oltre marzo «se necessario», e non c’è dubbio che lo sia: tutti gli indicatori segnalano che in Europa non è debellata la minaccia di una deflazione corrosiva dei consumi e degli investimenti.
Draghi però potrebbe aver seminato più indizi di quanto non avesse l’aria di fare. La Bce oggi prevede che la ripresa nell’area euro rallenterà già un po’ l’anno prossimo (anche se quella dell’Italia non ha ancora accelerato). Soprattutto, il banchiere centrale italiano sottolinea che l’inflazione dovrebbe risalire verso livelli più sani pian piano, ma solo a condizione che ci sia un «proseguimento» delle politiche monetarie attuali della Bce. Draghi non ha parlato di un potenziamento, con tassi ancora più sotto zero o centinaia di miliardi di euro in più in interventi sul mercato; in realtà il banchiere ha persino ammesso che il novero di titoli di Stato acquistabili si è ristretto, perché quelli di Francia, Olanda o Germania fino ai 5 o 7 anni di scadenza hanno rendimenti ormai così sotto zero da provocare perdite eccessive. Non è dunque escluso che nei prossimi mesi la Bce si limiti a rallentare il ritmo degli interventi, per farli durare più a lungo senza creare altra moneta rispetto ai 1.700 miliardi già deliberati.
Nulla è già deciso. Questa soluzione relativamente cauta sarebbe coerente per una banca centrale che capisce di non poter risolvere da sola i problemi dell’area euro. Può funzionare a una sola condizione però, ha fatto capire Draghi: la Germania, che chiuderà il 2016 con un avanzo di bilancio pubblico di 27 miliardi (0,9% del Pil) e promette surplus fino al 2020, deve spendere e investire di più per sostenere la propria ripresa e quella dell’area euro. Se non è un invito a debellare insieme i fantasmi dell’economia europea, poco ci manca. Certo non è usuale che il presidente della Bce chiami allo scoperto un Paese per nome. Del resto quando ha parlato dei governi «senza spazio di bilancio» che dovrebbero «ridurre le spese e le tasse, concentrandosi sugli investimenti» (non sui bonus a pioggia) non ha pronunciato il nome dell’Italia.
Eppure solo ora si inizia ad accettare qualcosa che i banchieri centrali sapevano di se stessi dall’inizio: da soli, non riusciranno mai a chiudere le fratture esposte dalla grande recessione, e a riportare la crescita, l’inflazione e il livello di redditi da lavoro di prima. Creare sempre nuovi dollari, sterline, yen e euro – o tagliare i tassi al punto che bisogna pagare per poter prestare denaro – non ricostruirà mai sistemi produttivi moderni. È su questo sfondo in movimento che ieri Mario Draghi doveva iniziare a segnalare i piani della Banca centrale europea. A marzo scade il suo ciclo di acquisti di titoli, un’operazione da 80 miliardi al mese alla quale l’Italia, il Portogallo, la Spagna e anche la Francia devono la propria stabilità finanziaria. Ieri Draghi ha tenuto le carte coperte, anche perché non c’è accordo al vertice della Bce. Ha ricordato per l’ennesima volta che gli acquisti continueranno oltre marzo «se necessario», e non c’è dubbio che lo sia: tutti gli indicatori segnalano che in Europa non è debellata la minaccia di una deflazione corrosiva dei consumi e degli investimenti.
Draghi però potrebbe aver seminato più indizi di quanto non avesse l’aria di fare. La Bce oggi prevede che la ripresa nell’area euro rallenterà già un po’ l’anno prossimo (anche se quella dell’Italia non ha ancora accelerato). Soprattutto, il banchiere centrale italiano sottolinea che l’inflazione dovrebbe risalire verso livelli più sani pian piano, ma solo a condizione che ci sia un «proseguimento» delle politiche monetarie attuali della Bce. Draghi non ha parlato di un potenziamento, con tassi ancora più sotto zero o centinaia di miliardi di euro in più in interventi sul mercato; in realtà il banchiere ha persino ammesso che il novero di titoli di Stato acquistabili si è ristretto, perché quelli di Francia, Olanda o Germania fino ai 5 o 7 anni di scadenza hanno rendimenti ormai così sotto zero da provocare perdite eccessive. Non è dunque escluso che nei prossimi mesi la Bce si limiti a rallentare il ritmo degli interventi, per farli durare più a lungo senza creare altra moneta rispetto ai 1.700 miliardi già deliberati.
Nulla è già deciso. Questa soluzione relativamente cauta sarebbe coerente per una banca centrale che capisce di non poter risolvere da sola i problemi dell’area euro. Può funzionare a una sola condizione però, ha fatto capire Draghi: la Germania, che chiuderà il 2016 con un avanzo di bilancio pubblico di 27 miliardi (0,9% del Pil) e promette surplus fino al 2020, deve spendere e investire di più per sostenere la propria ripresa e quella dell’area euro. Se non è un invito a debellare insieme i fantasmi dell’economia europea, poco ci manca. Certo non è usuale che il presidente della Bce chiami allo scoperto un Paese per nome. Del resto quando ha parlato dei governi «senza spazio di bilancio» che dovrebbero «ridurre le spese e le tasse, concentrandosi sugli investimenti» (non sui bonus a pioggia) non ha pronunciato il nome dell’Italia.