25 Novembre 2024

Colpo diplomatico della Cina, che ha fatto da mediatore tra Arabia Saudita e Iran in un vertice a Pechino

Gli Alti rappresentanti di Cina, Arabia Saudita e Iran si sono un po’ complicati la vita, la settimana scorsa, quando si sono incontrati a Pechino. Ma hanno fatto sapere che stiamo entrando in un nuovo mondo. Ancora prima di riunirsi, hanno deciso che, nel loro negoziato, non ci sarebbe stato alcuno scambio in inglese. Così hanno usato il mandarino, l’arabo e il farsi, avendo messo al bando l’unica lingua con la quale potevano capirsi, o almeno salutarsi.
Lo stesso nei documenti che si sono scambiati. Anche in questo piccolo particolare il capo della diplomazia del Partito Comunista Cinese Wang Yi, il ministro di Stato saudita Musaad bin Mohammed Al Aiban e il segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale iraniano Ali Shamkhani hanno chiarito che dall’incontro erano esclusi gli Stati Uniti e l’Occidente. Non c’è bisogno neppure dell’ombra di Washington per fare passi di pace, è stato il messaggio. Nemmeno in Medio Oriente.
L’accordo che i tre hanno siglato ha stabilito che Arabia Saudita e Iran sono disposti a riprendere le relazioni diplomatiche dopo sette anni di interruzione. Ora, hanno due mesi per elaborare i dettagli. Il governo cinese ha mediato tra le due parti: con l’impegno diretto di Xi Jinping, il quale lo scorso dicembre ha visitato Riad e incontrato il re saudita Salman e il leader di fatto Mohammed bin Salman (Mbs) e lo scorso febbraio ha ricevuto a Pechino Ebrahim Raisi, durante la prima visita di un presidente iraniano in Cina da vent’anni. Il Wall Street Journal ha rivelato anche che Xi sta organizzando un summit, più avanti nel 2023, a cui parteciperanno i monarchi dei sei Stati arabi del Consiglio di Cooperazione del Golfo e l’Iran.
Improvvisamente, la Cina assume il ruolo di grande mediatore di potere in Medio Oriente, dove finora i suoi interessi erano stati solo strettamente economici e legati alla necessità di approvvigionarsi di energia. Il ruolo svolto da decenni nella regione dagli Stati Uniti ha ora un rivale che fa sul serio e ha i mezzi per farsi ulteriormente spazio. Le tensioni tra Riad e Teheran sono di ogni genere: religiose, i primi sunniti i secondi sciiti; militari, con l’Iran che sostiene i ribelli Houthi nello Yemen, contro i quali l’Arabia combatte; geopolitiche, per l’egemonia regionale; nucleari, per il timore di Riad che il programma atomico iraniano si realizzi a pieno. Nel 2016, le relazioni diplomatiche tra Arabia e Iran si erano interrotte dopo l’esecuzione di un esponente del clero sciita, Nimr al-Nimr, da parte dei sauditi, alla quale erano seguite violente manifestazioni in Iran culminate nell’incendio dell’ambasciata di Riad a Teheran.
Per Pechino, la mediazione coronata da successo — soprattutto se prenderà davvero forma, cosa non del tutto scontata — è un colpo di diplomazia di primordine. E un segno di potere: dice che la Cina è pronta a sfidare l’egemonia degli Stati Uniti non solo nei mari cinesi ma anche in teatri considerati riserva di Washington e dei suoi presidenti. Che si muove con un disegno globale. Un passo che potrebbe abbassare le tensioni nel Medio Oriente oppure, al contrario, accrescere le rivalità tra i Paesi se a esso non seguiranno altre iniziative per ridurre le tensioni sempre fortissime nell’area. E che comunque è una sfida aperta a Joe Biden, il quale si è mosso con estrema ambiguità sia nei confronti dei sauditi sia nei confronti degli iraniani. Verso i primi, ha inizialmente snobbato Mbs per poi rincorrerlo senza molto successo. Verso i secondi, non chiarendo la posizione di Washington sull’evoluzione del programma nucleare degli ayatollah anche di fronte alla repressione delle donne iraniane.
L’accordo a tre non è un risultato diplomatico notevole solo per la Cina. L’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman ha saputo giocare sulla rivalità tra Pechino e Washington e oggi è in una posizione più forte per ottenere dagli Stati Uniti concessioni rilevanti se Biden vuole rientrare nel gioco del Golfo Persico. Inoltre, se ristabilire i rapporti con Teheran porterà davvero a un calo definitivo degli scontri attorno allo Yemen, per Riad il successo sarà pieno. L’Iran, per parte sua, ha dovuto dire di sì alla mediazione cinese: Pechino è uno dei non molti Paesi che non osteggiano il regime degli ayatollah. Inoltre, può avere vantaggi per uscire dall’isolamento internazionale e migliorare un po’ le sue situazioni economica e valutaria, che sono drammatiche.
C’è un corollario, infine, che dovrebbe preoccupare seriamente Stati Uniti ed Europa. Si sta formando una sorta di «asse dei despoti» indirizzato dall’egemonia cinese che ha ambizioni globali. Immediatamente, sfida la capacità americana di contrastarlo in più regioni, in Europa con l’Ucraina, in Asia con Taiwan, ora in Medio Oriente (Pechino, Mosca e Teheran stanno tenendo manovre navali congiunte nel Golfo di Oman). E ha alcuni fan nel mondo, Venezuela e Corea del Nord, per dire. Washington difficilmente potrà, da sola, contrastarlo ovunque, soprattutto se aumentassero le sfide militari. Sul lungo periodo, l’obiettivo degli autocrati è piegare le norme che regolano la vita internazionale ai loro metodi, non piacevoli, di governare. E non è questione di lingua inglese.

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