19 Settembre 2024

La Ue si trova ad essere ad un tempo troppo grande e troppo piccola per contare qualcosa. Rinunciare all’allargamento, con altre regole, darebbe prova di impotenza

Speriamo che il vertice informale dei ministri degli Esteri della Ue di lunedì scorso a Kiev sia l’ultima delle «visite di solidarietà» al Paese che più di un anno e mezzo fa fu aggredito dai russi. All’inizio questo genere di viaggi suscitava emozione, venivano considerati missioni sorprendenti, impegnative e rischiose. Adesso, non più. Il summit dell’altro ieri, ad esempio, non aveva all’ordine del giorno un tema destinato a restare impresso nella memoria; in verità, ha messo ben in evidenza su queste pagine Andrea Nicastro, «non c’era nulla da decidere» e per questo i media di tutto il mondo hanno potuto riferire di un «clima positivo». Uniche sorprese (sgradevoli) l’assenza dei delegati ungherese e polacco e (non sgradevole) il conferimento al nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani dell’onorificenza di «Iaroslav il Saggio».
Più impegnativo sarà il vertice che si terrà domani e dopodomani a Granada dove il tema dell’ingresso dell’Ucraina nella Ue non potrà essere eluso. Siamo al momento delle decisioni? I motivi per essere contrari all’allargamento dell’Unione europea — che non potrebbe essere limitato all’Ucraina ma dovrebbe estendersi ad altri otto Paesi, tutti per così dire «problematici» — li ha illustrati con la consueta lucidità Sergio Fabbrini domenica scorsa sul Sole 24 Ore. L’ampliamento dei Paesi Ue (che passerebbero da ventisette a trentasei) «è destinato a creare più problemi che soluzioni», ha scritto Fabbrini. Con questa eventuale decisione, ha aggiunto, «è possibile ipotizzare che si allargherebbe l’area di opacità relativa al rispetto dello stato di diritto». Così come è certo che «aumenterebbe il numero dei veto-players nel processo decisionale dell’Ue».
Ovvio che qualcosa di importante andrebbe cambiato. Nicastro ha riferito di calcoli secondo i quali, se Kiev entrasse nella Ue, con le regole attuali si accaparrerebbe l’80% dei fondi di coesione e per l’agricoltura. Ma basterebbe cambiare le regole? L’Economist aggiunge ai rilievi critici già esposti che tre dei nove Paesi candidati all’ammissione nella Ue (Ucraina, Georgia e Moldavia) sono costretti a «ospitare» truppe russe sul proprio territorio. E che gli altri, quelli balcanici, corrono rischi di destabilizzazione. Più o meno gravi. Ma pur sempre rischi.
Ma, nonostante ciò, secondo il settimanale britannico — con l’auspicio fin dalla copertina di un’Unione europea «più grande» — già a Granada si dovrebbe annunciare già che nel 2030 quei nove Paesi entreranno in Europa. Per il fatto — scrive l’Economist — che è l’unico modo di condizionare quei Paesi a mettersi in regola fin d’ora con le nostre norme, costringendoci nello stesso a rendere quelle norme compatibili con l’«Europa a 36». Cambiandole ovviamente, laddove devono essere cambiate.
Dalla guerra sostiene l’Economist — a conclusione di un’analisi, a nostro avviso, convincente — deve venir fuori un’Europa nuova. Un’Europa che abbia fatto tesoro degli insegnamenti dei diciannove mesi di conflitto. Il principale dei quali è che, così come è adesso, la Ue si trova ad essere ad un tempo troppo grande e troppo piccola per contare qualcosa. Rinunciare all’allargamento considerandolo di difficile realizzazione, darebbe prova di debolezza e di impotenza. Debolezza e impotenza che si pagherebbero anche su fronti apparentemente scollegati dalla guerra ucraina: economia, migranti, diritti civili.
Quanto sarebbe grande questa Europa nuova? La ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock — sostenitrice accanita, dal 24 febbraio 2022, delle tesi dell’Economist — nel ribadire che il futuro di Kiev sarà in Europa ha specificato che «la nostra comunità di libertà si estenderà da Lisbona a Lugansk». Lugansk? Si tratta della città più importante dell’omonimo oblast del Donbass. Dal 2014 è, per volontà russa, «capitale» della Repubblica popolare di Lugansk.
Un anno fa — tramite un referendum di cui quasi nessuno Stato al mondo ha riconosciuto la regolarità — fu direttamente annessa alla Russia. Per l’occasione Putin rispolverò quello che ai tempi dell’Urss era stata la denominazione dell’importante agglomerato urbano: Vorosilovgrad. Gli era stato dato, questo nome, in onore di Kliment Efremovic Vorosilov (1881-1969) un importante dirigente bolscevico che, negli anni successivi alla morte di Lenin (1924) diede una mano a Stalin nella battaglia contro Trotzkij. Vorosilov fu poi un longevo ministro della Difesa dell’Urss dal 1925 al 1940, cioè a quando il dittatore gli imputò la cattiva prova nella guerra contro la Finlandia e lo allontanò. Ma, nel momento in cui Hitler invase l’Unione sovietica (giugno 1941), Stalin fu costretto a richiamarlo in servizio. Il «nuovo» Vorosilov non si fidò più del suo «protettore» e si regolò in modo da sopravvivergli. Anche politicamente. Persino dopo che Krusciov al XX congresso del Pcus (1956) denunciò i crimini staliniani. Il nome di Vorosilov fu dato, in suo onore, a un carro armato e alla città del Donbass. La citazione di Putin è stata dunque — come sempre — non casuale: voleva essere l’ennesimo omaggio alla tradizione storica staliniana. Neanche l’evocazione della Baerbock è stata casuale. Secondo la ministra tedesca l’Ucraina deve entrare nella Ue per intero. Compresa Lugansk che è da anni sotto il dominio russo. Le implicazioni sono evidenti.

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