di Antonio Polito
La cultura progressista deve ripensare se stessa. Lo dice il Vangelo di porgere l’altra guancia, ma perfino Francesco ci ha informato che «se uno offende mia madre gli do’ un pugno»
Con le idee del Novecento non comprendiamo più ciò che sta accadendo, e non capiamo come reagire. Perfino la ragazza del secolo scorso per antonomasia, Rossana Rossanda, ha confessato al Corriere che stavolta «una linea non ce l’ho». Il problema è che gran parte delle idee democratiche, delle idee progressiste, delle idee di sinistra, sono del Novecento.E che gran parte della nostra élite si è formata su quelle idee, e oggi dispone di una cassetta degli attrezzi inutilizzabile, fatta di classi sociali e di divisione internazionale del lavoro, mentre il mondo di oggi sembra fatto apposta per stupirci, e si spacca su linee di frattura che avevamo date per spacciate, sepolte dalla Storia, come la religione. Sfogliamo il dizionario delle parole d’ordine che hanno rassicurato tante generazioni dal dopoguerra a oggi. Il pacifismo resta una nobile opzione morale, ma non è più una risposta realistica di fronte a chi ci dichiara guerra, o a chi ci chiede, come il socialista Hollande, di aiutarlo in guerra. Lo dice il Vangelo di porgere l’altra guancia, ma perfino Francesco ci ha informato che «se uno offende mia madre gli do’ un pugno». E se ammazzano i nostri cugini francesi? Essere pacifisti in un mondo così bellicoso, mentre sono in corso una cinquantina di conflitti e mentre le vittime di molti di quei conflitti sbarcano ogni giorno sulle nostre spiagge, non è una opzione politica. Quando la guerra era un metodo di risoluzione delle controversie internazionali, l’abbiamo ripudiata. Ma che facciamo se diventa una necessità di autodifesa, se abbiamo bisogno come oggi di qualcuno che contempli l’uso, proporzionato e legittimo quanto si vuole, della forza militare contro chi arma gli uomini-bomba?
Oppure prendiamo l’internazionalismo, vero discrimine tra sinistra e destra fin dal loro sorgere nel fuoco della Rivoluzione francese, valore poi sconfinato in un sogno irenico di cosmopolitismo, nell’utopia di società europee così multiculturali da non rendere più distinguibile la cultura degli indigeni. Onestamente, non è discorso proponibile a opinioni pubbliche sconvolte dalla paura, scioccate dalle proporzioni delle migrazioni, preoccupate di veder sparire le loro radici e il loro stile di vita in un magma indistinto di relativismo culturale, nel quale anche esporre un crocifisso può diventare offensivo. Emblematica, da questo punto di vista, è la polemica in corso sul Giubileo, che pure dovrebbe essere l’apoteosi dell’universalismo cattolico, ma che tanti vorrebbero rinviare per quieto vivere, anche se non penserebbero mai di rinviare una partita di calcio della Nazionale o un concerto di musica rock solo perché sono stati obiettivi dei terroristi a Parigi.
E infine soffre la retorica del ponte sul Mediterraneo, verso l’Africa e il Medio Oriente, tra Nord e Sud del mondo, del ruolo che tante volte ci è stato indicato come vocazione storica per il nostro Paese e tanto più per il nostro Mezzogiorno. Che fare, come scrive Paolo Macry sul Corriere del Mezzogiorno , quando invece «dal Sud del mondo viene la guerra», e non richieste di dialogo, di apertura culturale, di comprensione reciproca?
Di fronte alla vetustà di questo armamentario ideale, è facile gioco per le idee di destra apparire più moderne, più calzanti al mondo di oggi, e soprattutto più popolari. Anche quando non sono praticabili, o non sono accettabili, o non sono risolutive. Nazionalismo, nostalgia dei muri e delle frontiere, rifiuto del diverso, egoismo al posto del solidarismo; possono, di fronte alla doppia minaccia delle migrazioni di massa e del terrorismo islamista, provocare un vero e proprio riallineamento verso destra delle opinioni pubbliche europee, come accadde negli Usa dopo la frattura del Sessantotto. Il pensiero democratico che teme questo sviluppo non può dunque limitarsi a deplorarlo, quando non a irriderlo, o ad attribuirlo a pura ignoranza manipolata. È la cultura progressista che deve piuttosto ripensare se stessa, adeguarsi alla realtà del mondo così com’è; a partire dal binomio pace-guerra, perché pace non è lavarsene le mani, per continuare sul crinale laicità-religione, perché c’è religione e religione, fino alla riscoperta di un concetto di sovranità nazionale compatibile con un nuovo internazionalismo. Altrimenti avrà perso la guerra culturale scatenata nell’Occidente dall’offensiva islamista, dall’11 settembre del 2001 al 13 novembre del 2015.