22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Gerardo Villanacci

Non c’è dubbio che quella del rapporto tra eletti e partito di appartenenza sia una problematica irrisolta nel Movimento


Benché le reazioni di dissenso, anche da parte del Capo dello Stato, alle dichiarazioni dispotiche dei vertici del Movimento 5 Stelle e dei loro portavoce nei confronti dei giornalisti non siano state edulcorate, si percepisce l’assenza di una sollevazione critica più generalizzata verso affermazioni palesemente intolleranti ad analisi e opinioni divergenti alle precostituite linee guida dei rappresentanti politici che le hanno espresse. Certamente anche in un passato recente sono stati assunti atteggiamenti analoghi da parte di governanti intransigenti alle disapprovazioni del loro operato, anche se non si era mai giunti ad annunciare l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti, colpevole di non meglio delineati comportamenti anti-etici. Tuttavia la maggiore insidia di un tale comportamento, insofferente talvolta anche verso i propri aderenti, è che lo stesso potrebbe alimentare il già diffuso assorbimento di una cultura privatistica nell’esercizio delle funzioni governative. La persuasione cioè che la cifra contrattualistica sia giusto assurga a valore primario nella gestione della cosa pubblica. I segnali in questo senso sono chiari da tempo, basti considerare gli impegni vincolistici richiesti ai candidati che pur essendo declinati come morali, in caso di una loro violazione impongono il pagamento di penali salate se non addirittura l’espulsione del renitente, come in non pochi casi è avvenuto.
Non c’è dubbio che quella del rapporto tra eletti e partito di appartenenza sia una problematica irrisolta, alla quale peraltro l’intera compagine governativa non è indifferente. Nessuno ha dimenticato che, nella primigenia denominazione di Lega Nord, questo partito ha subito il ben noto «ribaltone», ovvero la fuoriuscita di alcuni suoi parlamentari dalla coalizione di governo nella quale erano stati eletti alle elezioni del 27 marzo 1994. Il punto è che non si può ricorrere ad artifizi pattizi per aggirare il divieto di mandato imperativo per il quale, a norma dell’articolo 67 della Costituzione, il parlamentare a tutela della sua indipendenza da qualsivoglia potere economico, sociale e politico non può aderire a disposizioni impartitegli da terzi, fosse anche il proprio partito.
Il vincolo di mandato non è equivalente al contratto di mandato di natura privatistica, nel quale il mandatario è tenuto al rispetto dell’incarico ricevuto e a rendere conto del proprio operato. Un legame così stringente non può essere imposto agli eletti, essendo la funzione di rappresentanza politica da loro svolta comprensiva di esigenze e principi nell’interesse e per conto dell’intera nazione, piuttosto che per i propri elettori. Per questa ragione gli eletti devono agire nella massima libertà e autonomia e non vi sono strumenti giuridici che possano costringerli al rispetto di accordi oppure a rispondere innanzi all’Autorità giudiziaria del modo in cui hanno esercitato il loro incarico. Si tratta di un principio introdotto formalmente per la prima volta con la Costituzione francese del 1793 e, a seguire, da tutte le altre europee tra le quale lo Statuto Albertino. Ma l’acme della concezione privatistica nella detenzione del potere pubblico è rappresentata dal contratto di governo. Uno strumento con il quale le forze politiche che lo hanno sottoscritto si sono vincolate al rispetto delle intese con lo stesso convenute. Ci sono fondate ragioni per supporre che il celeberrimo «Contratto sociale» di Jean- Jacques Rousseau, filosofo e politico dal quale prende il nome il sistema operativo del Movimento 5 Stelle, abbia ispirato il modello politico di società dell’attuale governo. O quantomeno di una parte rilevante dello stesso. Non di meno l’obiettivo del filosofo ginevrino di attuare uno Stato democratico per garantire la libertà del cittadino attraverso un accordo associativo politico, poteva giustificarsi in un momento storico in cui era opportuno contrapporsi al giusnaturalismo di Ugo Grozio e alla visione di potere assoluto espressa da Thomas Hobbes, ma non certo al nostro tempo nel quale, anche se c’è tanta strada ancora da fare, le libertà allora inesistenti sono appieno garantite.
Il rifiuto dei sistemi di governo fondati sulla rappresentanza nel timore che ciò implichi la rinuncia all’esercizio della sovranità da parte dei cittadini elettori, è una visione anacronistica. La sovranità è saldamente nelle mani del popolo che, seppure attraverso la delega, la esprime con la promulgazione di leggi. Ciò a cui bisogna attenersi è piuttosto il suo esercizio nei modi e nelle forme previste dalla Costituzione. Soltanto questa e i principi che la ispirano debbono essere la guida di chi governa piuttosto che opinabili impegni contrattuali, ferma la consapevolezza che l’unica responsabilità loro imputabile è quella politica.

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