Fonte: Corriere della Sera
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Innanzitutto dovremmo chiederci chi siano nel Meridione i soggetti giusti, chi possa cioè «dare le gambe» ai progetti finanziati con le nuove risorse
Dopo una lunga assenza, oggi il Mezzogiorno è rientrato nel dibattito nazionale come un punto di priorità strategica. E questo anche grazie all’energia del ministro Giuseppe Provenzano. Si riparla di «big push»: i fondi del Recovery fund dell’Unione Europea — così sembra — saranno in parte usati per la rinascita della parte meno produttiva del Paese. Il Corriereha recentemente ospitato un vivace dibattito tra il ministro e il professor Giavazzi sulle agevolazioni fiscali alle imprese del Sud. Qualunque opinione si abbia in materia è un bene che se ne parli. Ancora poco tempo fa circolava l’idea che il Sud sarebbe ripartito con la ripresa del Nord. Ma prima ancora di dibattere sugli interventi da mettere in campo, dovremmo chiederci chi siano gli interlocutori nella società meridionale, cioè i soggetti che possano «dare le gambe» ai progetti finanziati con queste nuove risorse. La domanda non è di facile risposta, ma è essenziale per capire le modalità di intervento desiderabili. Il successo o il fallimento della linea di interventi destinati al Mezzogiorno dipende in grande parte dalla risposta a questa domanda.
Per farci una idea possiamo cominciare guardando al passato. L’ultima serie di grandi interventi nel Sud è stata attuata negli anni 50 tramite la Cassa del Mezzogiorno. Nella parte iniziale della sua attività, le politiche della Cassa hanno avuto un impatto quando si sono concentrate sulle infrastrutture, ad esempio strade, bonifiche e opere di irrigazione. In quella prima fase, la gestione fu efficace e riscosse il consenso e il supporto di istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. Infatti quello fu il periodo in cui i divari regionali tra il Nord e il Sud raggiunsero il minimo storico nella storia dell’Italia repubblicana. In quegli anni, la Cassa iniziò l’attività sui poli di sviluppo. Prese decisioni su dove impiantare la grande industria, decisioni a tavolino che in molti casi si tradussero in cattedrali nel deserto, ma in altri crearono poli industriali in grado di fungere da centri di agglomerazione.
Tuttavia, quando — a metà degli anni 60 — la Cassa passò da una gestione centralizzata a una decentralizzata, essa divenne sempre più soggetta a pressioni e influenze della politica nazionale e locale. Da quel momento le politiche per il Mezzogiorno vennero catturate da gruppi di interessi particolari e dai partiti di governo e furono associate a sperperi e politica clientelare. Poi negli anni 80 la Cassa fu posta in liquidazione e progressivamente si esaurì l’intervento straordinario.
Oggi siamo in una fase ancora diversa. Il «big push» arriva con dei vincoli esterni istituzionali da parte dell’Unione europea volti proprio ad evitare gli errori del passato ma questo non garantisce che i fondi si spendano bene o che si sia capaci di spenderli.
I fondi dell’Ue e la nuova attenzione al Sud sono certamente un’opportunità che non va persa. Questa nuova fase di interventi è però più complessa da attuare perché avviene in un tessuto economico che non è quello povero e rurale degli anni 50. Se in quel periodo era inevitabile che la decisione sui poli di sviluppo venisse dall’alto, adesso non si può prescindere dal tessuto industriale esistente che è spesso costituito da imprese private. Soprattutto, il «big push» arriva in una società più matura ma anche più frammentata che combina aree di eccellenza con situazioni di estremo degrado. Nonostante le eccellenze, nel Sud prevale un blocco sociale di ceti non produttivi o assistiti che chiedono protezione sociale e sussidi. La prevalenza di questi ceti è il frutto delle politiche clientelari della seconda fase dell’intervento straordinario sul Mezzogiorno e delle conseguenti migrazioni di massa verso il Nord che hanno depauperato il capitale umano di questa parte dell’Italia. E tuttavia, nessun progetto di crescita può realizzarsi indipendentemente da chi lo deve trainare, dandogli forza e impulso. Per questo, nel pensare all’uso dei nuovi fondi bisogna aggregare le forze migliori e più dinamiche delle regioni meridionali. Aggregare e mettere in rete le migliori esperienze è importante perché una delle caratteristiche del Mezzogiorno è l’isolamento di chi fa industria e innova nel campo sociale. Questa condizione dei ceti produttivi impedisce la nascita di eco-sistemi in cui la concentrazione di imprese e lavoratori con alte competenze favorisce la proliferazione di idee e innovazione. Lo stesso isolamento fa sì che le istanze di un uso distorto dei fondi trovino più ascolto presso la politica nazionale e locale.
Vi sono interventi strategici che dovrebbero essere attuati su larga scala come la banda larga, l’innalzamento delle competenze degli studenti meridionali e i tempi della giustizia. In questo caso facendo affidamento e potenziando il management del settore pubblico che deve farsi carico della scommessa di chiudere i divari con le regioni del Nord. I protagonisti di questi progetti — pensiamo ai dirigenti scolastici che hanno riaperto le scuole in posti dove le condizioni e la domanda di istruzione sono scadenti — andrebbero investiti di queste sfide. Se possibile sostituiti se non sono in grado di farsi carico della sfida con colleghi che hanno operato bene. In questa chiave, politiche che favoriscono la mobilità Nord-Sud hanno una logica ma solo se si inseriscono in questa visione progettuale più ampia.
Occorre però avere il coraggio di puntare su pochi e ambiziosi progetti sul tessuto industriale esistente investendo sulle infrastrutture che favoriscono la connettività e l’innovazione. Nel Mezzogiorno esistono mega atenei all’interno dei quali vi sono aree alla frontiera della conoscenza. Si prenda per ognuno di questi un’area strategica di eccellenza e si investa su quella per generare benefici al tessuto industriale circostante. Vi sono anche competenze nel Mezzogiorno in settori chiave come l’aerospaziale, l’energetico e l’elettronica. Alcuni di questi settori dovrebbero essere sostenuti da infrastrutture materiali e non da sussidi. Altri, come quello energetico, sono in attesa di capire la strategia del governo per quel settore e quindi la direzione dei progetti di riconversione industriale. I protagonisti di queste sfide sono alcuni dei rettori degli atenei del Mezzogiorno e i manager delle grandi imprese private. Essi molto spesso non sono rappresentati da associazioni di categoria ma agiscono in situazioni difficili e competono sui mercati internazionali. Dovrebbero essere loro gli interlocutori.
Il messaggio è quindi: non polverizzare gli interventi per accontentare tutti ma puntare su pochi grandi progetti con un «big push» guidato dal centro ma che veda come protagoniste le forze migliori della società meridionale. È da quelle persone e quelle realtà che occorre partire se vogliamo evitare un altro fallimento.