21 Novembre 2024
Voto Quirinale

Voto Quirinale

L’appello alla «larga condivisione» anche da vescovi e industriali

Il Grande Gioco non è iniziato ancora, ma dal turbine degli emissari i Cinque Stelle, che sommano un numero imponente di grandi elettori, hanno maturato una convinzione: nessuno ha voglia di menare le mani. È ancora presto per i nomi, quasi senza senso i veti e le pregiudiziali, ma secondo la loro analisi e le loro informazioni, nessuno vuole iscriversi alla lotteria della spallata, con il rischio di perdere la partita del settennato. E quindi la scelta dovrebbe risolversi entro le prime tre votazioni, meglio entro la seconda, quando è richiesta la maggioranza dei due terzi dell’assemblea.
Giuseppe Conte e Luigi Di Maio si parlano e, pur nella competizione interna, hanno tutto l’interesse a non lasciare spazio ai guastatori, visto che ognuno dei due vuole ereditare il Movimento tutto intero. E anche perché scommettere sul 505, il numero di consensi che servono dalla quarta chiama, sarebbe avventato con gli schieramenti sul filo, i franchi tiratori e il generale Omicron.
Per ora non si parla di voto a distanza, anche se Clemente Mastella e Stefano Ceccanti l’hanno proposto, e le possibili defezioni per contagio rendono ancora più difficile fare da soli. Larga maggioranza dunque, sulla scia che ha portato alla nascita del governo guidato da Mario Draghi e in sintonia con quello che sembra essere il sentimento, oltre che l’interesse, del Paese. E arrivano i primi pronunciamenti: la Conferenza episcopale chiede un presidente coraggioso e solido che eviti spaccature e invita i grandi elettori ad essere attenti anche all’estero. Il presidente Carlo Bonomi schiera Confindustria perché, sulle contrapposte pulsioni, prevalga la maggior condivisione possibile e si elegga un capo dello Stato di alta caratura.
Se i Cinque Stelle hanno ragione, il «se» è d’obbligo nel Grande Gioco dove gli inganni sono di casa, allora il centrodestra dovrà trovare il modo di consumare in modo onorevole la candidatura di Silvio Berlusconi, che in caso di successo porterebbe probabilmente con sé la rinascita dell’anti berlusconismo e la fine dell’unità nazionale con il possibile ricorso alle elezioni anticipate.
Ma anche Enrico Letta deve dimostrare di saper guidare il suo partito, perché all’interno del Pd non manca una componente, nel frazionamento delle correnti, che crede o più probabilmente si illude di poter mandare un suo rappresentante al Quirinale, lasciando Mario Draghi a Palazzo Chigi. O in subordine dirottare i voti su Giuliano Amato o magari su Pier Ferdinando Casini. Tutte scelte che indebolirebbero il segretario tanto che nei corridoi c’è chi lo avverte: «Stai attento, che se non li tieni a bada quelli prima fanno fuori Mario Draghi, poi fanno fuori te».
Insomma, insieme al desiderio di larghe convergenze per scegliere un presidente di alto livello, convive nei partiti una brama quasi incontrollata di potere e una voglia di mettere le mani, il più possibile senza intermediari, sui miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Se ne è accorto un vecchio socialista come Fabrizio Cicchitto, che sul Riformista mette in guardia soprattutto Matteo Salvini e Giorgia Meloni: «Se pensano di eleggere un presidente rispettabile ma non di alta caratura e poi di vincere le elezioni giocando a scassaquindici tra di loro, senza la garanzia di Mario Draghi, rischiano di venirsi a trovare, e con loro l’Italia, in una situazione assai difficile». Il riferimento è al pericolo di trovarsi esposti nei confronti dell’Europa e di perdere il favore delle cancellerie guadagnato negli ultimi mesi.
Ma la partita è evidentemente ancora lunga e per ora il toto nomi continua a essere esercizio quasi ozioso. Si elucubra su chi potrebbe essere la persona capace di coagulare vasti consensi: preferibilmente un’alta figura non direttamente politica, oppure anche un personaggio politico che non abbia però un marchio di fabbrica troppo evidente, o invece una donna, dove però la vaghezza degli auspici desta più di un sospetto sulla reale possibilità di arrivare a una soluzione di questo tipo.
Nell’impossibilità di avere un unico regista, visti i rapporti di forza sostanzialmente equilibrati tra gli schieramenti, sta nascendo intanto una nuova figura, quella del «non» kingmaker. E siccome i voti nella sfida per il presidente della Repubblica si contano e non si pesano, nascono gruppi piccoli e medi che razzolano consensi, per convincere i pesi massimi che, se sposano un determinato candidato, potranno poi vantarsi di essere stati loro a decidere la partita.

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