Per eleggere il presidente della Repubblica si tratta di scegliere una persona, di fare un nome. Di fronte a questa incombenza i partiti reagiscono con una sorta di omertà istituzionalizzata, di reticenza elevata a sistema
Difficile immaginare qualcosa di più increscioso delle brutte figure che sta facendo in queste settimane il sistema politico italiano o per meglio dire le donne e gli uomini che ne sono i protagonisti. Si va dai palesi tentativi di acquisto di voti (li si chiami come si vuole ma di questo si tratta: e ne è protagonista quella stessa destra che un anno fa si stracciava indignata le vesti perché Conte e i suoi amici cercavano di fare la stessa cosa che fa lei oggi) alle feroci lotte intestine all’interno dei vari partiti e schieramenti accuratamente dissimulate nell’illusione che gli elettori non si accorgano di nulla (mentre gli elettori invece si accorgono bene di tutto e, chiamati alle urne in un collegio di Roma, rispondono disertandole al 90 per cento).
Ma su tutte queste brutte figure, su questi pessimi esempi, campeggia un fenomeno negativo più generale che dà compiutamente l’idea della degenerazione del sistema: la sua totale opacità proprio nel momento in cui esso è impegnato nella sua scelta più importante.
Per eleggere il presidente della Repubblica si tratta di scegliere una persona, di fare un nome. Ebbene, di fronte a questa incombenza come reagisce il sistema, e cioè i partiti che ne sono gli attori concreti? Con una sorta di omertà istituzionalizzata, di reticenza elevata a sistema. Infatti, a parte Berlusconi che con sovrano sprezzo del pericolo ha comunque il coraggio di candidarsi (anche lui però con la successiva mossa quanto meno bizzarra di riservarsi di accettare la candidatura che lui stesso ha avanzato: quando si dice la doppiezza italiana!), a parte Berlusconi, dicevo, per il resto è stato finora un silenzio di tomba. Di un nome e cognome, di candidature vere, esplicite, neppure una. Tutti i leader si sono presentati per giorni sugli schermi televisivi fintamente compunti e pensosi riparandosi dietro le formule ripetute ossessivamente dell’«alto profilo istituzionale», della «irreprensibile moralità» addirittura della «persona per bene» nel consueto esercizio — tipico dei politici italiani quando parlano in pubblico — di buttare la palla fuori dal campo.
Va così in scena sotto gli occhi dell’opinione pubblica un grandioso paradosso. Il fatto che tutti abbiano paura di perdere è la dimostrazione dell’importanza cruciale della decisione da prendere: ma proprio perché la decisione è così importante tutto deve svolgersi dietro le quinte, nulla di ciò che conta deve trapelare all’esterno. Quasi che anche agli occhi del futuro potente inquilino del Quirinale fosse dimostrazione di saggezza fare il possibile per non apparire tra i suoi mancati elettori. In un’atmosfera, insomma, che somiglia assai più a quella di un’oligarchia dove si ha paura delle vendette che a quella del regime costituzionale che per fortuna ci governa.
Può infatti, mi chiedo, una democrazia funzionare in questo modo? Può in uno dei momenti anche simbolicamente più cruciali della vita pubblica del Paese scegliere il silenzio elusivo, le allusioni, le strizzate d’occhio, i messaggi indiretti, gli accordi sottobanco veri o presunti? È ammissibile che la mancanza di pubblicità diventi la regola? Intendiamoci: nessuno è così ingenuo da pensare che non sia assolutamente fisiologico in qualunque regime, e dunque anche in una democrazia, l’accordo, il compromesso, il do ut des, e che perciò in certi momenti vi sia anche un’ovvia atmosfera di discrezione. Tuttavia la riservatezza è una cosa e gli arcana imperii un’altra, e tra un Parlamento e il gabinetto segreto dello zar sarebbe bene che restasse pur sempre una certa differenza.