L’ha detto Mario Draghi, chiedendo la fiducia al Senato lo scorso 17 febbraio: «Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi». Lo prevede l’articolo 51 della Costituzione che dice: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Ma l’aggiunta della frase «A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», è arrivata il 30 maggio 2003, dopo un iter di quasi due anni, su iniziativa dell’allora premier Silvio Berlusconi e dei ministri Stefania Prestigiacomo e Umberto Bossi. Il neosegretario del Pd Enrico Letta ha appena nominato una segreteria di otto uomini e otto donne e si è battuto per due donne capogruppo alla Camera e al Senato. Ma l’introduzione degli «appositi provvedimenti» non ha prodotto granché: il 3 novembre 2017, con l’approvazione dell’attuale legge elettorale (il Rosatellum) vengono introdotte le «quote di lista». Ebbene, l’analisi dei risultati delle elezioni Politiche del 2018 lascia pochi dubbi: la parità formale è uno specchietto per le allodole. Ecco quali sono i meccanismi che beffano le donne.
Candidature che penalizzano
In Italia votiamo con un sistema misto. Il 37% dei seggi è assegnato con il maggioritario, dove vince chi prende un voto in più (collegi uninominali). Mentre il 63% dei seggi è distribuito con il proporzionale, ossia in base alle percentuali ottenute dai diversi partiti (collegi plurinominali). Politiche 2018, Camera dei Deputati: nei 232 collegi uninominali il 40% dei candidati di ciascuna coalizione deve essere donna.
Ai nastri di partenza le quote sono sempre rispettate, ma all’arrivo la musica cambia, e i dati dimostrano che la scelta di candidare in un collegio un uomo o una donna è un po’ studiata a tavolino.
I partiti, che i territori li conoscono bene visto che i collegi sono di piccole dimensioni, tendono a candidare le donne dove prevedono meno chance di successo
Infatti nel centrodestra su 139 candidati uomini vincono in 72 (52%), mentre su 92 donne candidate le elette sono 39 (42%). M5S, 134 candidati uomini, eletti in 59 (44%); 98 candidate donne, elette 34 (34%). Centrosinistra candidati uomini 137, eletti 18 (13%); candidate donne 95, elette 8 (8%). Significa che un candidato uomo dei due schieramenti più votati – il centrodestra e il M5S – ha il 10% di possibilità in più di essere eletto rispetto alla candidata donna del suo stesso partito, e il 5% se è di centrosinistra. Inoltre tra quelle che conquistano il seggio, il 25% lo fa per il rotto della cuffia, mentre gli uomini eletti con un margine altrettanto basso sono solo il 16%. Risultato: gli uomini eletti alla Camera sono 150 (65%), e le donne 82 (35%). Se poi guardiamo i numeri di chi arriva secondo vediamo che gli uomini sono 130, cioè meno di quelli che hanno vinto, e 106 le donne, ben di più delle elette. Ma i «secondi» non vanno tutti a casa, perché c’è il ripescaggio, e anche qui, come vedremo, è furbescamente organizzato a vantaggio degli uomini.
Collegi sicuri e paracadutati
In pratica ciò che conta non è tanto l’essere uomo o donna, ma piuttosto quanto è blindato il seggio per cui corri. Si salvano le candidate con peso politico. Mariastella Gelmini trionfa nel collegio storicamente di centrodestra di Desenzano del Garda con il 51,6% dei voti e un vantaggio del 30%. Idem Maria Elena Boschi a Bolzano, forte dell’alleanza del Pd con la locale Svp, batte Micaela Biancofiore, che però alla Camera entra comunque come capolista in un collegio plurinominale dell’Emilia-Romagna. Infatti quando la situazione è incerta, il partito può proteggerti candidandoti contemporaneamente anche nei collegi dove si vota con il proporzionale, e se sei capolista il seggio è in pratica assicurato. Ma per le donne i trattamenti di favore sono eccezioni. Prendiamo il collegio uninominale di Scandiano (Reggio Emilia), uno dei più combattuti delle ultime elezioni: lo vince la candidata di centrosinistra Antonella Incerti, che batte Rossella Ognibene del M5S con uno scarto dell’1,2% e Maura Catellani del centrodestra con uno scarto del 2,2%. La battaglia è difficile e tutte e tre rischiano di andare a casa, però nessuna di loro viene candidata anche nel proporzionale. Nel centrosinistra i paracadutati invece sono 12, di cui 10 uomini. Tra gli altri spiccano Dario Franceschini, l’ex ministro Marco Minniti, Matteo Orfini, il figlio del presidente della Campania Piero De Luca, e l’ex magistrato Cosimo Ferri, già membro del Csm.
Le sicurezze dei secondi in lista
Nei 63 collegi plurinominali i seggi si ripartiscono in proporzione ai voti di ogni partito, e per legge si hanno liste bloccate. Anche qui il 40% dei capilista deve essere donna, con obbligo dell’alternanza di genere: se il capolista è un uomo, il secondo è una donna e viceversa. Eletti 247 uomini (64%) e 139 donne (36%). Come mai? Dove si confida di prendere molti voti capolista è una donna, poiché sono alte le probabilità che entri anche il secondo in lista. Al contrario, se la storia è incerta piazzi per primo un uomo: mal che vada viene eletto, e pazienza se non si porta dietro la seconda. La prova, ancora una volta, nei numeri: su 38 eletti arrivati secondi nel centrodestra, 28 sono uomini e 10 donne.
Un po’ più equo il centrosinistra: su 24 eletti, 15 uomini e 9 donne. Per la parità di genere il M5S: su 50, 26 uomini e 24 donne.
Risultato: le donne in Parlamento oggi sono 334, prima del Rosatellum 299. Solo 35 in più. Erano aumentate di 97 dal 2008 al 2013, quando le quote di lista non esistevano.
Le Regioni
Le Regioni hanno invece adottato le quote di lista progressivamente dal 2009, in seguito ad un’altra legge costituzionale del 2001, che inserisce nell’articolo 117 della Costituzione la frase: «Le leggi regionali promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive». La prima a recepirla è la Campania (marzo 2009), l’ultima la Calabria (settembre 2020). All’appello manca soltanto il Piemonte, dov’è aperta la discussione. Inoltre, 16 hanno previsto la doppia preferenza di genere: se vuoi dare due voti, i candidati devono essere di sesso diverso.
Questi meccanismi hanno contribuito ad aumentare la presenza femminile solo nelle assemblee regionali dove le donne erano già superiori alla media
Confrontando prima e dopo, in Emilia-Romagna le elette passano da 10 a 20, in Toscana da 10 a 14, in Veneto da 11 a 18, ma in Basilicata si va da 0 a 1, in Liguria addirittura diminuiscono, passando da 5 sono a 3 dopo le elezioni regionali del 2020.
Il caso della Puglia
In Puglia il Consiglio regionale si rifiuta di introdurre la doppia preferenza di genere, e così lo fa d’imperio il Governo nazionale a luglio 2020 in vista delle elezioni di settembre. L’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, di origini pugliesi, commenta così: «Oggi abbiamo scritto una nuova pagina nella storia italiana dei diritti politici e, in particolare, dei diritti delle donne. Per il Governo l’empowerment femminile è un imperativo morale, politico e giuridico». Risultato storico? Dopo le elezioni di settembre le donne in consiglio regionale pugliese passano da 5 a 7. Nei fatti, oggi in 13 regioni le donne elette sono meno del 25%.