La politica italiana, in questi ultimi giorni, prima, durante e dopo gli scontri di Bologna, ha dimenticato che ogni frase conta. Vale. Pesa. Soprattutto quando il clima è caldo. E siamo tornati indietro di 50 anni, anche se tutti sanno che non è vero. Viene il sospetto che gli opposti cortei diventino gli opposti alibi per non parlare dei problemi di oggi
Una foto. Che poi è «la» foto. Il ragazzo si piega sulle gambe, la pistola in pugno, il passamontagna sul volto, spara ad altezza d’uomo. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977, simbolo (orribile) di una stagione. Negli scontri muore Antonio Custra, vicebrigadiere, 25 anni (venticinque). E in quegli stessi giorni, a Bologna, i giovani violenti minacciano il sindaco Renato Zangheri: vogliono bruciare la città e cacciare i fascisti. Fascisti che, a loro volta, picchiano, sprangano, cercano il sangue, in un decennio aperto da piazza Fontana nel ’69 e finito troppo tardi e troppo male.
Nostalgia: nessuna. Neanche l’ombra. Neppure un granello. Gli anni Settanta, gli opposti estremismi, i cattivi maestri: lasciamoli alla storia, ai film, alle serie tv. Quanti morti, quanta follia, quanti danni.
Chi chiede più sicurezza nelle città fa bene, fa sempre bene: ma all’epoca, per la paura, il sabato pomeriggio non si andava in giro. E neanche la sera. Per una guerriglia civile più psichiatrica che politica. Ora i nostri centri storici sono invasi dai residenti e dai turisti, in una festa perenne di colori, caos e shopping. È più facile che una vetrina si rompa per la ressa che per un colpo di bastone.
CasaPound e la Rete dei patrioti hanno avuto una pessima idea. Sfilare a Bologna, la città della strage fascista, nei giorni della campagna elettorale, per dire «basta con il degrado» (anche originali). Un errore. Che ha chiamato l’errore opposto. I ragazzi della sinistra estrema «antagonista» in piazza per impedire il corteo (lo decidono loro?) e per attaccare la polizia (rileggersi Pasolini su Valle Giulia costa troppa fatica?). Si sono nominati, da soli, custodi della democrazia e della Costituzione: grande autostima. Il pasticcio perfetto. Un remake, fatto anche male, del 1977: più fumogeni che passioni
«In principio era il Verbo», dice il Vangelo di Giovanni. Cioè il logos, il pensiero, il senso, la parola. La parola. Fa strano scomodare le Scritture, ma la politica italiana, in questi ultimi giorni, prima, durante e dopo Bologna, ha dimenticato che ogni frase conta. Vale. Pesa. Soprattutto quando il clima è caldo. E siamo tornati indietro di 50 anni, anche se tutti sanno che non è vero. Dovrebbe afferrarlo in primis chi è al governo, ma poi anche chi è all’opposizione. Giorgia Meloni ha difeso la polizia (giusto), poi ha aggiunto: «Spiace constatare che certa sinistra continui a tollerare e, talvolta, a foraggiare questi facinorosi». L’uso dei termini «certa» e «talvolta» attutisce (non cancella) l’attacco politico. Necessario? Indispensabile? Rasserenante? La premier conosce quella stagione del Paese. Sa che ogni parola è acqua o benzina, l’italiano ha mille sfumature.
Matteo Salvini, che vive un periodo di grande moderazione, è andato oltre: «Zecche rosse, comunisti, delinquenti». La polemica, anche dura, è il sale della democrazia. Poi c’è il clima generale. E ci sono le parole, ancora loro. Poiché il termine «zecche» veniva usato dai nazisti, andrebbe bandito dal consesso e dal linguaggio civile. Al di là del colore politico. Ci sarebbe di nuovo il Vangelo, ma lasciamolo in pace: le persone sono persone, anche se sbagliano rovinosamente (come nelle violenze di Bologna). E, se delinquono, vanno condannate: in modo certo, rapido, concreto, efficace, senza aumentare le pene ogni giorno, come ci ha spiegato Cesare Beccaria 260 anni fa. Un giurista milanese, italiano, che ha insegnato il diritto a tutto il mondo.
E se si tratta di alzare i toni, invece che raffreddarli, l’opposizione si accomoda subito. Elly Schlein aveva già cominciato il riscaldamento: «Non posso sopportare che i lavoratori vengano purgati con olio di ricino». Necessario? Indispensabile? Rasserenante? Il problema del fascismo che bussa sempre alle porte è che poi apri e non c’è nessuno. Matteo Lepore, sindaco di Bologna, si è sentito negli anni Venti, quelli del Novecento: «Ci hanno mandato 300 camicie nere». La storia si ripete come farsa e anche al contrario. La marcia «su» Roma è diventata «da» Roma. Dopo un secolo, cambia pure la segnaletica.
Viene il sospetto che gli opposti cortei diventino gli opposti alibi. Gli anni Settanta come metafora del Paese che guarda indietro, lo spauracchio di «fascisti» e «comunisti» per non parlare dei problemi di oggi. Il lavoro, il debito pubblico, le pensioni, le chance per i giovani, i treni in ritardo, il mondo ora che c’è Trump, l’Europa da rilanciare, gli adolescenti con le armi, le strade da rifare, i migranti che vanno e vengono dall’Albania, gli asili per i piccoli, la cura degli anziani. La lista appare lunga (e complicata). Dire zecche e camicie nere è più facile.
L’Italia ha bisogno di andare avanti, la civiltà dei toni è parte del cammino. Compresa la solidarietà alla polizia, certo. Nessuno ha il diritto di aggredirla. E nessuno, con le frasi sbagliate o inutili, deve trasformarla in un bersaglio. Né da destra né da sinistra. «Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola» (Italo Calvino, Lezioni americane, Esattezza). Il genio ha sempre il dono della profezia.