Fonte: Corriere della Sera
di Mauro Magatti
Occorrono sia tempo che consenso per uscire dall’impasse. Serve un discorso nuovo che possa far superare la frattura tra classe dirigente e ceti popolari
È diventato ormai un leitmotiv il riconoscimento della distanza venutasi a creare tra quello che pensano le classi dirigenti e benestanti (persone istruite e economicamente stabili) e i nuovi ceti popolari (anziani, giovani che non riescono a entrare nel mercato del lavoro, abitanti delle periferie e della provincia, ex-classe media impoverita, working poors). Ci sono molte varianti di questa frattura. Ma non si può capire la fase attuale senza fare riferimento a tale questione. In fondo, ciò a cui stiamo assistendo è la risposta da parte dei diversi Paesi alla lunga e irreversibile trasformazione socio-economica iniziata dopo il 2008.
L’America di Trump è indecifrabile senza tener conto delle fatiche delle aree rurali dell’America profonda. La Brexit, che ha letteralmente spazzato via un’intera classe politica, è vincente un po’ ovunque salvo che a Londra. In Francia, il tentativo ambizioso di Macron di rilanciare il modello francese si scontra con la difficoltà di tenere insieme riforme e consenso, resa manifesta dalla tenace resistenza dei gilet gialli.
Una difficoltà che è stata anche la vera ragione della sconfitta elettorale del Pd nel 2018. Unica eccezione è il caso tedesco – assieme ai Paesi satelliti – che si regge non solo su istituzioni forti ma anche sulla egemonia nei mercati europei. E pur tuttavia, l’ormai prossima fine dell’era Merkel espone anche quel modello a un passaggio delicato. L’ascesa dei Verdi apre ora una prospettiva nuova, che rimane ancora tutta da verificare.
È in questo quadro che occorre leggere non solo quello che il governo giallo-verde sta facendo in questi anni in Italia, ma anche la reazione di gran parte dei gruppi dirigenti e dei media ufficiali, in larga parte contrari all’azione del governo. A questo proposito, c’è da chiedersi come mai l’opinione pubblica resti così poco sensibile ai messaggi che in modo pressoché omogeneo vengono quotidianamente lanciati da Tv e giornali. I social media sono un pezzo della spiegazione, ma non sono sufficienti a dar conto di una tale divaricazione.
L’Italia ha cominciato a zoppicare negli anni 80, quando cioè il modello economico sociale ha virato verso il neoliberismo e la globalizzazione. La risposta del nostro Paese a quella svolta (centrata attorno al «berlu-sconismo»), è stata inefficace. La spinta dell’Ulivo di Prodi troppo intermittente e conflittuale. In questo quadro, per tutti gli anni 90 e i primi anni 2000, l’Europa è stata invocata come vincolo esterno necessario per risolvere problemi interni e contrastare le spinte involutive del nostro Paese. Ma con la crisi del 2008, associata ai vincoli di bilancio e alla gestione impolitica della crisi, l’Europa si è trasformata in nemica, e dunque in alibi. A partire dal governo Monti, l’insoddisfazione si è diffusa e con essa il vittimismo e l’odio sociale. Sotto l’influenza di questo «sentiment», il Paese un anno fa (tendenza poi confermata dalle recenti elezioni europee) ha votato due partiti fondamentalmente antisistema e anti-Europa che, aldilà delle loro evidenti differenze, si sono uniti in nome di un disegno velleitario. Ora, fallito il disegno che sperava di arrivare a cambiare gli assetti europei, i nodi sono destinati a venire al pettine. Col rischio che il governo spinga l’Italia fuori dei binari dell’Europa e della crescita.
Se non si vuole fare la fine della Grecia, occorre al più presto aiutare l’opinione pubblica a recuperare il senso di quello che è successo e del punto in cui ci troviamo. Con un po’ di equilibrio, però. L’Italia rimane un grande Paese con risorse e capacità straordinarie, ma ha accumulato da molti anni una serie di ritardi (bassi livelli di istruzione, declino demografico, corruzione e pubblica amministrazione inefficiente, riduzione degli investimenti pubblici e privati, infrastrutture obsolete, produttività insufficiente…) che, ad oggi, la rendono incapace di reggere la fase storica nella quale siamo. Specie per quanto riguarda le regioni meridionali.
Che fare? Il problema è che per uscire da questa traiettoria di declino ci vuole tempo e consenso. Obiettivo difficilissimo da ottenere perché un’ampia parte della popolazione ha perso fiducia nelle classi dirigenti. Una trappola da cui, per ora, si riesce a uscire solo a livello locale: nelle città, laddove c’è una buona amministrazione, la risposta dei cittadini non si fa attendere. Ciò che occorre è un discorso nuovo che sappia tenere insieme tre dimensioni che, almeno in apparenza, sono divergenti: il riconoscimento del nostro ritardo e la necessità di mettere mano con efficacia ai nostri problemi; l’assicurazione che questo percorso sia fatto insieme, cioè in spirito di solidarietà (cioè senza lasciare indietro nessuno) e di identità (in nome cioè di una dignità dell’Italia, dignità da salvaguardare e promuovere a livello europeo e internazionale); uno sguardo realistico ma pieno di ambizione verso il futuro, perché, al di là della notte in cui siamo immersi, si intravede già l’alba di una nuova fase che mette al centro la sostenibilità integrale.
Per uscire dall’impasse la politica è decisiva. Ma nessun leader sarà in grado di farcela se le tantissime esperienze vitali (economiche, associative, culturali, etc.) che stanno andando già nella direzione indicata non faranno sentire la loro voce, generando l’energia spirituale necessaria per spingere il Paese lontano dal precipizio in cui rischia di finire.
L’America di Trump è indecifrabile senza tener conto delle fatiche delle aree rurali dell’America profonda. La Brexit, che ha letteralmente spazzato via un’intera classe politica, è vincente un po’ ovunque salvo che a Londra. In Francia, il tentativo ambizioso di Macron di rilanciare il modello francese si scontra con la difficoltà di tenere insieme riforme e consenso, resa manifesta dalla tenace resistenza dei gilet gialli.
Una difficoltà che è stata anche la vera ragione della sconfitta elettorale del Pd nel 2018. Unica eccezione è il caso tedesco – assieme ai Paesi satelliti – che si regge non solo su istituzioni forti ma anche sulla egemonia nei mercati europei. E pur tuttavia, l’ormai prossima fine dell’era Merkel espone anche quel modello a un passaggio delicato. L’ascesa dei Verdi apre ora una prospettiva nuova, che rimane ancora tutta da verificare.
È in questo quadro che occorre leggere non solo quello che il governo giallo-verde sta facendo in questi anni in Italia, ma anche la reazione di gran parte dei gruppi dirigenti e dei media ufficiali, in larga parte contrari all’azione del governo. A questo proposito, c’è da chiedersi come mai l’opinione pubblica resti così poco sensibile ai messaggi che in modo pressoché omogeneo vengono quotidianamente lanciati da Tv e giornali. I social media sono un pezzo della spiegazione, ma non sono sufficienti a dar conto di una tale divaricazione.
L’Italia ha cominciato a zoppicare negli anni 80, quando cioè il modello economico sociale ha virato verso il neoliberismo e la globalizzazione. La risposta del nostro Paese a quella svolta (centrata attorno al «berlu-sconismo»), è stata inefficace. La spinta dell’Ulivo di Prodi troppo intermittente e conflittuale. In questo quadro, per tutti gli anni 90 e i primi anni 2000, l’Europa è stata invocata come vincolo esterno necessario per risolvere problemi interni e contrastare le spinte involutive del nostro Paese. Ma con la crisi del 2008, associata ai vincoli di bilancio e alla gestione impolitica della crisi, l’Europa si è trasformata in nemica, e dunque in alibi. A partire dal governo Monti, l’insoddisfazione si è diffusa e con essa il vittimismo e l’odio sociale. Sotto l’influenza di questo «sentiment», il Paese un anno fa (tendenza poi confermata dalle recenti elezioni europee) ha votato due partiti fondamentalmente antisistema e anti-Europa che, aldilà delle loro evidenti differenze, si sono uniti in nome di un disegno velleitario. Ora, fallito il disegno che sperava di arrivare a cambiare gli assetti europei, i nodi sono destinati a venire al pettine. Col rischio che il governo spinga l’Italia fuori dei binari dell’Europa e della crescita.
Se non si vuole fare la fine della Grecia, occorre al più presto aiutare l’opinione pubblica a recuperare il senso di quello che è successo e del punto in cui ci troviamo. Con un po’ di equilibrio, però. L’Italia rimane un grande Paese con risorse e capacità straordinarie, ma ha accumulato da molti anni una serie di ritardi (bassi livelli di istruzione, declino demografico, corruzione e pubblica amministrazione inefficiente, riduzione degli investimenti pubblici e privati, infrastrutture obsolete, produttività insufficiente…) che, ad oggi, la rendono incapace di reggere la fase storica nella quale siamo. Specie per quanto riguarda le regioni meridionali.
Che fare? Il problema è che per uscire da questa traiettoria di declino ci vuole tempo e consenso. Obiettivo difficilissimo da ottenere perché un’ampia parte della popolazione ha perso fiducia nelle classi dirigenti. Una trappola da cui, per ora, si riesce a uscire solo a livello locale: nelle città, laddove c’è una buona amministrazione, la risposta dei cittadini non si fa attendere. Ciò che occorre è un discorso nuovo che sappia tenere insieme tre dimensioni che, almeno in apparenza, sono divergenti: il riconoscimento del nostro ritardo e la necessità di mettere mano con efficacia ai nostri problemi; l’assicurazione che questo percorso sia fatto insieme, cioè in spirito di solidarietà (cioè senza lasciare indietro nessuno) e di identità (in nome cioè di una dignità dell’Italia, dignità da salvaguardare e promuovere a livello europeo e internazionale); uno sguardo realistico ma pieno di ambizione verso il futuro, perché, al di là della notte in cui siamo immersi, si intravede già l’alba di una nuova fase che mette al centro la sostenibilità integrale.
Per uscire dall’impasse la politica è decisiva. Ma nessun leader sarà in grado di farcela se le tantissime esperienze vitali (economiche, associative, culturali, etc.) che stanno andando già nella direzione indicata non faranno sentire la loro voce, generando l’energia spirituale necessaria per spingere il Paese lontano dal precipizio in cui rischia di finire.