19 Settembre 2024

Stretta correlazione tra la puntuale attuazione e le chance attribuite al Recovery fund europeo di conseguire i risultati attesi

Il messaggio inviato nelle ultime settimane dalle istituzioni europee, a partire dal vice presidente esecutivo della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis e dal commissario agli affari economici Paolo Gentiloni pare alquanto esplicito. Vi è una stretta correlazione tra la puntuale attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, appena varato dal Consiglio dei ministri e spedito a Bruxelles, e le chance attribuite al Recovery fund europeo di conseguire i risultati attesi. Lo è per l’entità delle risorse che confluiranno al nostro Paese da qui al 2026 (191,5 miliardi che salgono a 248 miliardi se si comprendono i 30 miliardi del Fondo complementare e le risorse del Ready EU). E lo è per il meccanismo di finanziamento dei 750 miliardi del Next generation EU, che avverrà attraverso il collocamento sul mercato di bond emessi dalla Commissione Ue.

Il monitoraggio del Piano
Non è allora un caso che dai tecnici di Bruxelles siano giunte diverse richieste di integrazione e chiarimenti soprattutto sul versante decisivo delle riforme. Nelle linee guida diffuse dalla Commissione europea, valide per tutti i Paesi, la connessione tra il percorso delle riforme strutturali indicati nei piani nazionali e il cronoprogramma di attuazione degli investimenti, declinati lungo le due direttrici (green e transizione digitale), è strettissima. La preoccupazione emersa nelle fasi che hanno preceduto il varo del Pnrr, poi dissipate (almeno nell’immediato) grazie alle rassicurazioni fornite dal presidente del Consiglio, Mario Draghi si concentra in questa fase soprattutto sul fronte di riforme da anni ritenute da Bruxelles fondamentali per aumentare il potenziale di crescita della nostra economia: pubblica amministrazione, giustizia civile, concorrenza, fisco.

Il Piano è blindato
È un percorso che dovrà essere interpretato come sostanzialmente blindato, e dunque per quanto possibile al riparo dalla variabile politica interna, su cui da sempre si concentrano le preoccupazioni non solo da parte della Commissione Ue, ma soprattutto da parte dei paesi più rigoristi del Nord Europa, poco propensi a mettere in gioco debito comune europeo per finanziare un piano di riforme e investimenti così corposo senza garanzie precise che l’impianto non venga smontato al primo cambio di governo e di maggioranza. Resta diffuso (e non del tutto ingiustificato) una sorta di pregiudizio sulla capacità effettiva del nostro Paese di realizzare progetti e far decollare riforme attese da anni. Si teme in sostanza che finiscano per prevalere le logiche del passato, che tra veti incrociati dei partiti, cronica inefficienza della macchina pubblica e conflitti di competenze tra autorità centrali e amministrazioni decentrate, hanno prodotto risultati non certo incoraggianti, come mostra quel risicato 40% attualmente attribuito al nostro Paese nella capacità effettiva di spesa dei fondi europei.

Se fallisce il programma italiano, fallisce il Piano europeo
Ecco perché, vi è consapevolezza diffusa a Bruxelles e nelle capitali europee che la partita che il Governo si accinge a giocare sul fronte della realizzazione del Piano nazionale non sia solo una questione interna al nostro paese, ma una questione europea. Si può per questo immaginare che, mutatis mutandis, l’Italia torni a essere da qui ai prossimi anni una sorta di “sorvegliato speciale”? Per certi versi sì, considerato l’ammontare di risorse in gioco. Il che lascia intendere che gli step semestrali previsti dal cronoprogramma saranno monitorati con attenzione, e che l’interazione con la Commissione sarà continua. È anche un modo, molto concreto, per evitare che insorgano obiezioni da parte del Consiglio, e che su richiesta di qualche paese possa scattare il cosiddetto “freno di emergenza”, preludio della possibile sospensione nell’erogazione delle tranche semestrali dei fondi assegnati all’Italia. Le condizionalità, del resto sono ben presenti nel meccanismo e nel funzionamento del Next Generation EU. Ed è del resto assolutamente comprensibile che di fronte alla portata della sfida in atto si richieda il rispetto puntuale degli impegni sottoscritti.

Riforme e investimenti cruciali per la sostenibilità del debito
L’altro fattore, connesso al primo, che determinerà una costante attenzione da parte di Bruxelles nelle fasi di attuazione del Piano di ripresa e resilienza, riguarda il debito pubblico che viaggia verso la soglia record del 160% del Pil. In sintonia con quanto il Governo sostiene nel Piano, si giudica assolutamente prioritario il raggiungimento degli obiettivi di crescita connessi all’attuazione del programma: 3,6% da qui al 2026 rispetto allo scenario che si determinerebbe senza l’atteso effetto-leva del combinarsi di riforme e investimenti. E anche in questo caso, il problema della sostenibilità del debito da parte della terza potenza economica europea non è certo solo un affare interno al nostro Paese. Se si materializzasse il rischio di una nuova crisi del nostro debito sovrano, ancora una volta sarebbe l’intera Europa a finire nell’occhio del ciclone. L’Italia non è la Grecia, e dunque il rischio è da scongiurare con la massima determinazione. Il cambio di marcia rispetto agli anni dell’austerity e dei richiami al puntuale rispetto dei parametri europei è in ogni caso evidente. L’interlocuzione sarà costante tra gli uffici della Commissione e la struttura del Ministero dell’Economia cui il Pnrr attribuisce in via esclusiva il ruolo di interfaccia tra Roma e Bruxelles. Occorre evitare – almeno questo è l’auspicio – di dar vita a nuovi “bracci di ferro” , in cui questa volta sul tavolo vi siano i mancati impegni nelle fasi di realizzazione del Piano e non gli “zero virgola” di deficit in più. Non vi sono procedure d’infrazione dietro l’angolo, almeno fino a quanto la disciplina di bilancio europea resterà congelata. Vi è in gioco molto di più: la credibilità del nostro Paese e il suo futuro.

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