Fonte: Corriere della Sera
di Dario di Vico
Nel dibattito politico italiano l’ipotesi di istituire il reddito di cittadinanza sta sicuramente prendendo campo ben oltre il Movimento Cinque Stelle che pure ne ha fatto da tempo la sua bandiera. Il guaio è che, come spesso avviene nella nostra litigiosa arena politica, passa in secondo piano l’approfondimento sul come, il quanto e la platea che ne dovrebbe usufruire. Così una proposta — che sicuramente ha un discreto appeal mediatico — diventa nel giro di poco tempo un luogo comune lessicale. Come ha avuto modo di chiarire Stefano Toso, docente a Bologna e autore di un volumetto sull’argomento uscito dal Mulino, bisogna sapere che il reddito di cittadinanza è incondizionato, sceglie di essere una misura universalistica a carico della fiscalità generale e finisce per erogare un assegno a tutti i cittadini a prescindere dalla loro condizione economica e dalla loro disponibilità ad accettare un lavoro.
Il dibattito tra universalismo e selettività è nobilissimo, risale addirittura al XVIII secolo e sul tema si sono confrontati e accapigliati alcuni tra i premi Nobel più prestigiosi ma in concreto, ovvero nell’Italia di oggi, i calcoli di Toso ci dicono che pagare un reddito universale di 400 euro (come un minijob tedesco) costerebbe una cifra vicina ai 300 miliardi di euro. È chiaro che la popolarità della proposta di cui stiamo discutendo è dovuta anche alla difficoltà di escogitare delle policy anti-disuguaglianza, il peccato di approssimazione (e propaganda) però non può essere perdonato. Chiediamo solo che chiunque, a qualsiasi schieramento appartenga, abbia intenzione di formulare ipotesi di sostegno generalizzato ai redditi indichi anche il costo dell’operazione e chiarisca se è compatibile con i fragili equilibri della nostra finanza pubblica. La raccomandazione vale anche per tutti coloro che propendono (giustamente) per misure selettive e condizionate ma che per non essere da meno con gli «universalisti» giocano con le parole.