23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

politica

di Antonio Polito

Il premier dovrà prendere sul serio le ragioni e i dubbi del no e provare a rimuoverli, se vuole strappare all’opposizione o semplicemente spingere alle urne chi non è mosso da conservatorismo né da astio politico nei confronti del governo e però ne diffida

Ci sono molte buone ragioni per votare sì al referendum costituzionale. La prima delle quali è l’occasione storica che ci offre per liberarci dell’anomalia tutta italiana di due Camere che fanno le stesse cose due volte, eufemisticamente detta «bicameralismo perfetto». Sarebbe un premio cui il riformismo ambisce da molto tempo. Certo, quel premio viene con un prezzo, segnalato da molti e prestigiosi costituzionalisti. Il Senato devitalizzato come un dente malato, invece che trasformato in una vera e propria Camera delle Regioni; non più elettivo, composto di consiglieri regionali, non proprio il meglio della classe politica nostrana. E poi una procedura per la formazione delle leggi farraginosa e destinata ad aprire conflitti. E infine un forte indebolimento dell’autonomia legislativa delle Regioni (ammesso che questo sia un male: c’è chi non la rimpiangerà).
Eppure, per quanto si leggano le dotte discussioni apertesi tra sostenitori del sì e del no, è difficile convincersi che il prezzo sia superiore al premio. È vero, ci sono molti pasticci, e il testo che ne è venuto fuori non ha niente a che vedere con la chiarezza cristallina di quello dei padri costituenti. Ma spesso il meglio è nemico del bene, ed è sempre meglio del niente. Però la grandissima maggioranza degli elettori non decideranno in base a questi ragionamenti, per quanto il perbenismo pubblicistico ci intimi di votare «sul merito». Gli italiani faranno una scelta politica. E quando dico politica non mi riferisco a quelli che voteranno per partito preso, a prescindere, per colpire il governo o per sostenerlo. Quella è una minoranza di politicizzati. Tutti gli altri dovranno decidere se approvano il tentativo di Matteo Renzi di rendere più facile il comando del leader (oggi lui, domani chissà); di dar vita cioè non certo a un regime, come a parti rovesciate ora paventa Berlusconi, ma a un governo con pochi lacci e lacciuoli. Oppure se temono questo progetto, e preferiscono mantenere in vita un sistema di controlli e condizionamenti sul potere del leader, così che il governo non si trasformi mai in comando. Se non su Renzi, questo voto sarà dunque certamente e direttamente sul suo disegno politico, e senza la rete di protezione del quorum.

E infatti, per quanto non se ne parli più, si voterà indirettamente anche sull’Italicum, e cioè su una legge elettorale con il premio di maggioranza (pure questa un’anomalia tutta italiana) che può trasformare il partito che vince anche di un solo voto, qualsiasi siano le sue reali dimensioni elettorali, in un gigante parlamentare da 340 seggi, stipando e frazionando tutte le opposizioni (che nel tripolarismo nostrano possono rappresentare fino al 70-75%) nei restanti 290 seggi dell’unica Camera elettiva rimasta. Il finale al ballottaggio introduce di fatto l’elezione diretta del premier in un sistema sulla carta ancora parlamentare, dunque non dotato di tutti i necessari contrappesi al potere del vincitore. Se a questo si aggiunge una certa insofferenza del premier Renzi per le opposizioni in Parlamento e per il dissenso in generale, che si manifesta non solo in atteggiamenti e stile di governo personale ma anche nell’aver quantomeno avallato un frenetico trasformismo parlamentare a destra e a sinistra, si comprende che dal punto di vista politico ci sono molte buone ragioni anche per il no.
La campagna del premier — crediamo — dovrà prendere sul serio quelle ragioni e provare a rimuoverle, se vuole strappare all’opposizione o anche semplicemente spingere alle urne chi non è mosso da conservatorismo costituzionale né da astio politico nei confronti del governo e ciò nonostante ne diffida. Nei confronti di questo elettorato l’argomento che si dice suggerito da Jim Messina, il guru americano ingaggiato per la bisogna, e cioè che con la riforma si risparmiano stipendi e senatori, è piuttosto un’aggravante, perché sembra confermare una insofferenza nei confronti della democrazia parlamentare. Perfino Giorgio Napolitano, il più autorevole tra i sostenitori del sì, avvertì in Senato sette mesi fa, quando la riforma fu approvata: «Al di là del disegno di legge in discussione bisognerà altresì dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali». Finora non è successo. C’è da augurarsi che prima del referendum Renzi dia qualche risposta a queste legittime preoccupazioni, del resto analoghe a quelle che spinsero nel 2006 molti elettori a bocciare la riforma costituzionale di Berlusconi.

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