19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

voto

di Riccardo Franco Levi

Di fronte alla scelta tra il Sì e il No, sarebbe meglio sgomberare il campo da scenari catastrofici prospettati in caso di vittoria dell’uno o dell’altro fronte, che potrebbero influenzare la nostra valutazione

Al 4 dicembre, giorno fissato per il referendum costituzionale, mancano ormai meno di sette settimane. Quel giorno sarebbe bene che gli italiani e le italiane potessero fare serenamente la propria scelta guardando solo alla riforma della Costituzione oggetto del quesito referendario.

A questo fine, è importante sgomberare il tavolo da una questione in grado di condizionare ogni altra valutazione: la previsione che un No porterebbe all’immediata caduta del governo e in tempi stretti a nuove elezioni e che, determinata dall’improvvisa instabilità politica, si avrebbe una crisi finanziaria destinata a sfociare in un «default» dell’Italia, cioè nell’incapacità dello Stato di garantire i propri debiti.

Sono in molti a prospettare o l’uno o l’altro o entrambi questi scenari. Se ne trovano tra i sostenitori del Sì, presentato come l’unica difesa capace di scongiurare il disastro. Se ne trovano tra i sostenitori del No, visto come la grande occasione per porre fine al governo Renzi.

La realtà è che questi scenari catastrofici non tengono conto di due fondamentali elementi: uno economico/finanziario, l’altro politico/istituzionale. Quanto alla finanza, la vera determinante nel garantire la relativa stabilità del mercato dei titoli di Stato — perché è di questo che stiamo parlando — è la politica monetaria delle banche centrali e, per quel che ci riguarda, della Banca centrale europea. Tanto più che il referendum avverrà — e da questo punto di vista è stata una scelta saggia quella di fissarlo a dicembre — a legge di bilancio già approvata dal governo e già sottoposta al giudizio di Bruxelles.

Fino a che la Bce guidata da Mario Draghi garantirà ampia liquidità ai mercati e con questo schiaccerà verso il basso i tassi d’interesse — al punto che persino la Finlandia, negli ultimi anni una delle peggiori economie europee, è riuscita a collocare titoli a 10 anni con un rendimento sotto lo zero — è assai improbabile che eventuali crisi politiche possano tradursi in gravi e durature crisi finanziarie.

Ne sono prova l’andamento dei titoli spagnoli, da mesi sostanzialmente impermeabili ad un’assenza di un vero governo e, proprio pochissimi giorni or sono, lo spettacolare successo, con una domanda più di tre volte superiore all’offerta, del lancio da parte dell’Italia di un titolo con una scadenza mai vista prima, addirittura a 50 anni. Segno che l’enorme liquidità in cerca di investimento ha permesso di superare di slancio anche i consolidati timori per la malferma salute delle nostre banche e per l’altissimo livello del debito pubblico e quello più recente per il possibile risultato del referendum.

Proprio a questo tornando e per quanto si riferisce alla politica, la storia delle crisi di governo ci dice che l’eventuale vittoria del No non ci porterebbe affatto all’unico e immediato sbocco di nuove elezioni e che il calendario istituzionale seguirebbe, sotto la guida competente, esperta e prudente del presidente Mattarella, le strade segnate dai suoi predecessori.

Se del caso, lungo quelle tracce sarebbero, dunque, queste le più che probabili tappe: 1) Salita al Quirinale del presidente del Consiglio per la presentazione delle dimissioni del governo. 2) Rinvio del premier alle Camere per verificare con un voto di fiducia la presenza di una maggioranza parlamentare a sostegno del suo governo. 3) Nel caso di un voto positivo, ritiro delle dimissioni e prosecuzione della normale attività di governo. 4) In caso di bocciatura, consultazioni per verificare la possibilità – pienamente legittima in una democrazia parlamentare come la nostra – di completare la legislatura con un diverso esecutivo. 5) Se anche questo risultasse impossibile, la via d’uscita sarebbe quella di un governo incaricato di portare il Paese al voto con il duplice e ristretto mandato di approntare una nuova legge elettorale e di gestire l’economia nel segno dello sviluppo e del risanamento. L’esempio al quale fare riferimento sarebbe ovviamente quello dell’esecutivo guidato tra il 1993 e il 1994 da Carlo Azeglio Ciampi. Anche in quest’ultimo caso, sarebbe, comunque, assai difficile andare al voto prima del 2018. Come si vede, la strada sarebbe comunque lunga e quasi certamente priva d’improvvisi salti nel vuoto. Il 4 dicembre potremo (e dovremmo) votare con serenità.

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