22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Aldo Cazzullo

Qualsiasi governo che oggi sottopone la propria linea ai cittadini con un referendum si sente rispondere di no. Hanno cominciato gli inglesi, licenziando Cameron e la sua scelta di restare in Europa. Hanno continuato ungheresi e colombiani. Eppure le domande bocciate domenica scorsa potevano sembrare retoriche. Più che referendum, erano plebisciti. «Gli immigrati non li vogliamo, siete d’accordo, vero?». «Pace fatta con i guerriglieri, giusto?». Come si fa a essere contro la pace? Eppure l’insoddisfazione popolare e il rigetto verso i leader sono stati più forti: a Budapest la maggioranza è rimasta a casa, vanificando la prova di forza di Orbán; a Bogotà la maggioranza si è schierata contro. Ancora una volta, il fenomeno travalica le categorie storiche di destra e sinistra. In Ungheria la destra è uscita ridimensionata nella sua ambizione di ergersi a regime e ritagliarsi uno spazio al di fuori dalle leggi europee; ma in Colombia la destra ha vinto, denunciando l’accordo con gli ex terroristi come un cedimento all’ondata postcastrista e chavista che ha percorso l’America Latina lasciando disastri dal Venezuela al Brasile. La mancanza di lavoro e le difficoltà economiche aiutano a capire il malcontento, ma non spiegano tutto: mentre il mondo si piegava nella crisi, la Colombia cresceva al ritmo del 4% l’anno. La prevalenza del no ai referendum non è un fenomeno inedito.

In Italia ad esempio, sino alle grandi vittorie di Segni, gli elettori avevano sempre votato no (in particolare all’abrogazione del divorzio e dell’aborto). Dopo l’esplosione del Maggio 1968, De Gaulle sciolse l’Assemblea nazionale e stravinse le elezioni; ma quando l’anno dopo sottopose ai francesi il suo progetto di riforma costituzionale, all’insegna del regionalismo e della partecipazione, fu sconfitto e si ritirò a vita privata, esprimendo l’intenzione di morire il primo possibile (fu accontentato l’anno dopo). E se è accaduto a un gigante della storia essere rifiutato dal popolo che aveva salvato, figurarsi alle figure ovviamente più modeste che calcano ora la scena mondiale ed europea. Complicata da un altro fattore.

A Londra, dove il sistema bipolare ha retto — con l’eccezione delle politiche 2010 —, Cameron ha pagato il proprio azzardo con le dimissioni e l’addio alla politica. E in tutto il resto d’Europa i poli ormai sono tre o quattro. Il risultato è evidente: arrivare al 51% in una votazione secca è molto difficile; decisamente più facile per le opposizioni coalizzarsi contro chi comanda, scontrandosi con questioni più grandi di lui. In Francia il presidenzialismo a doppio turno crea una torsione per cui un candidato dal 30% o anche meno prende tutto, e diventa rapidamente impopolare: è accaduto a Sarkozy e a Hollande, domani accadrà forse a Juppé. La Spagna è senza governo da quasi un anno. In Germania la «Grosse Koalition» è di fatto un centrosinistra, con il centro che traballa e la sinistra che affonda. In Italia Renzi ha creduto di rafforzare il sì offrendo la propria testa all’elettorato, e ha ottenuto il risultato contrario.

Basta leggere il sondaggio di Nando Pagnoncelli per il Corriere: nel merito il sì prevale nettamente, punto per punto, dal Senato al Cnel al titolo V; ma quando si tratta di dare un’indicazione netta, l’istinto popolare tende a orientarsi sul no. La campagna è ancora lunga, gli indecisi sono troppi per fare previsioni serie; ma la vittoria del sì, che non molto tempo fa appariva quasi scontata, si trova a dover rimontare la corrente della storia.

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