Le regioni sono ormai grandi enti di gestione, pozzo senza fondo di spese per la sanità e molto altro
Le disavventure giudiziarie che hanno colpito in successione la Puglia, il Piemonte, la Sicilia e infine la Liguria, con il clamoroso arresto del presidente Toti, hanno indotto taluni a parlare di nuova Tangentopoli. Il paragone, avvalorato anche da un’intervista televisiva di Antonio Di Pietro, è alquanto improprio. Tralasciando per brevità le profonde differenze di contesto, quella stagione, che generò nel 1992 l’inchiesta Mani pulite, fu svelata e condotta al suo epilogo penale soprattutto a causa di una condizione esterna: Maastricht. Entrare nei parametri del progetto europeo per un’economia come la nostra, assistita, statalista e sottomessa al giogo dei partiti, comportò necessariamente la rottura del patto tra cartelli imprenditoriali usi a uccidere la concorrenza con le tangenti e una politica che col debito pubblico comprava consenso: da quella frattura sgorgarono notizie di reato che in pochi mesi divennero un fiume e travolsero il sistema (non a caso l’unico, in Occidente, a cadere per effetto del crollo del Muro di Berlino).
Quanto vediamo ora, in queste settimane che conducono alle elezioni europee, è invece frutto, almeno in via principale, di una condizione tutta interna: le Regioni e il degrado vieppiù evidente della loro vicenda politico-amministrativa. Intendiamoci: l’indagine che ha convolto Giovanni Toti e pezzi importanti del mondo economico ligure va soppesata con prudenza, e non solo per la sacrosanta presunzione di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Non sarebbe la prima volta che inchieste roboanti finiscono nel nulla. E, in questo caso particolare, il nesso di causalità tra finanziamenti regolarmente registrati e comportamenti amministrativi che si presumono irregolari non sarà facile da sostenere fino alla Cassazione. Ciò però non toglie niente all’allarme, tutto politico, che deve risuonare se nei meccanismi di formazione del consenso di quattro grandi Regioni si profilano comunque opacità, trattative occulte, scambi elettorali.
Le Regioni, così come delineate dalla riforma iperfederalista del Titolo V della Costituzione varata nel 2001 dal centrosinistra (con l’intento di esorcizzare l’avanzata della Lega che allora pareva impetuosa) sono diventate in un quarto di secolo staterelli autonomi e formidabili centri di spesa. I loro presidenti, «governatori» di territori in competizione tra loro, sono eletti direttamente dai cittadini. Il costituzionalista Alfonso Celotto rilevava su «La Stampa» un dato su cui si riflette poco: il presidente di Regione è la carica elettiva diretta più elevata del nostro ordinamento. Ora, questo formidabile dominus deve tenere in piedi una costosissima baracca, da riavviare a ogni tornata elettorale, in assenza di finanziamento pubblico ai partiti (abolito, di nuovo da un centrosinistra spaventato, stavolta, dalla pressione grillina).
Resta, certo, il finanziamento privato (in un Paese che, per ipocrita moralismo, non si decide a regolamentare l’attività di lobby). E per cosa credete che gli imprenditori del luogo finanzieranno un presidente di Regione e le sue fondazioni? Per schietta adesione ai suoi valori ideali? Per la sua visione più o meno europeista? Per le sue opinioni sulla pace nel mondo? O, piuttosto, per provare a garantire alla propria botteguccia sotto casa un occhio di riguardo?
Le Regioni sono diventate uno strano animale mitologico. Meuccio Ruini, presentandole alla Costituente, sostenne che nelle autonomie locali si sarebbe inverato «un ingrandimento della persona umana». Il problema è che l’ingrandimento personale dei loro amministratori ha sovente travalicato i limiti dell’interesse nazionale. Nate per programmare, sono diventate enti di gestione, pozzo senza fondo di spese per la sanità, la prima materia a finire nelle loro mani con esiti disastrosi. La pandemia ne aveva segnalato l’inadeguatezza di fronte alle emergenze, con provvedimenti contraddittori tra Lombardia e Sicilia, tensioni tra governo nazionale e «governatori» del Nord, un localismo in libera uscita da cui s’intravedeva una crisi profonda. Su queste colonne, a novembre 2020, Ernesto Galli della Loggia auspicava un ritorno «alla Costituzione originaria», quella in vigore prima della riforma federalista del 2001.
Di certo Giorgia Meloni non le amava. Il 15 gennaio 2014 presentò con Edmondo Cirielli una proposta di legge costituzionale per la loro abolizione. Ora il paradosso della storia vuole che sia proprio lei il presidente del Consiglio chiamato ad accompagnare il federalismo regionale all’ultimo passo, la riforma autonomista del leghista Calderoli, piena attuazione dell’articolo 116 di quella Costituzione riformata nel 2001. È possibile che Meloni sia convinta, con il premierato forte che tenta a sua volta di far passare in Costituzione, di bilanciare il dissolvimento dello Stato unitario che molti prevedono quale esito finale del ddl Calderoli e di una devoluzione localista estrema in materie delicatissime. Gli scricchiolii che salgono dagli apparati regionali sono tuttavia inquietanti e, chissà, forse forieri di cautela. Il rischio, sullo sfondo, potrebbe essere di nuovo quello di una supplenza giudiziaria verso una politica sonnambula. Questa, sì, in similitudine con Tangentopoli: e non certo auspicabile.