8 Settembre 2024

Numerose sono le materie economiche non legate ai Lep, cioè i Livelli essenziali di prestazioni

Non sappiamo quanto certe accalorate incursioni del presidente campano De Luca tra i palazzi romani aiutino gli italiani a capire qualcosa dell’autonomia differenziata. Poco, c’è da temere. Perché urla e improperi non migliorano l’approccio a una materia ostica al di là del tifo pro o contro Geolier: e che, tuttavia, va compresa proprio svitandosi dal binomio retorico «Nord secessionista contro Sud assistenzialista», andando a individuare l’interesse nazionale, nascosto (per ora) da un grosso malinteso.
Il disegno di legge del leghista Calderoli ha (salvo disallineamenti nella maggioranza) forti probabilità d’essere approvato prima delle Europee di giugno. Per la Lega non è soltanto la migliore carta elettorale. È anche, forse, l’ultimo vessillo per tenere assieme un gruppo in cui la vistosa crisi di Salvini incrocia il dissenso di territori che trovano in Luca Zaia il coagulo critico («mi piaceva più la Lega Nord», ha buttato lì il presidente veneto, così pizzicando il partito salviniano nazionalista e di ultradestra).
Siamo ormai al compimento d’un percorso iniziato più di tre decenni fa con Bossi e la Padania, passato dal separatismo mascherato al federalismo spinto e già benedetto dalla riforma del Titolo V del 2001 che, voluta dal centrosinistra nell’illusione di sterilizzare le istanze del Carroccio, ha varato il regionalismo così come lo conosciamo (venti staterelli, venti sanità disomogenee…). L’articolo 116 della Costituzione allora riformata già prevede l’ultimo passo: la devoluzione alle Regioni di un ulteriore lungo elenco di materie in ambiti molto ampi. Dunque, sul tavolo non c’è nulla di eversivo. Ciò detto, si tratta di una riforma «a due tempi», come spiega bene Adriano Giannola, presidente di Svimez.
Delle 23 materie in ballo, quelle che attengono a diritti civili e sociali da assicurare a tutti i cittadini, da Bolzano a Ragusa (come sanità, istruzione o trasporto pubblico locale) sono legate ai Lep, livelli essenziali di prestazioni (ciò che in sanità sono i Lea, livelli di assistenza), difficili da stabilire: ci ha lavorato una Commissione presieduta da un giurista del calibro di Sabino Cassese. Si può andare per le lunghe (24 mesi dall’approvazione della legge per avere i relativi decreti del governo) e vanno finanziati in tutta Italia. Uno pensa: campa cavallo, non succederà mai.
Qui, però, si profila il malinteso di cui sopra. I Lep, dei quali molto si dibatte, sanno di specchietto per le allodole. Tra le 23 materie, numerose sono quelle «non Lep» (che non attengono a diritti civili e sociali erga omnes). Per esse, il secondo comma dell’articolo 4 del disegno di legge Calderoli prevede la possibilità del trasferimento delle funzioni appena approvata la legge, immaginiamo a giugno, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie. Tra queste materie c’è anche la parte di sanità che attiene agli stipendi del personale: e aggraverebbe un quadro in cui le Regioni del Sud sono già quasi tutte inadempienti sui Lea. Ma soprattutto «non Lep» saranno le grandi materie economiche: infrastrutture, energia, zone speciali, portualità, commercio estero, la «ciccia» nel piatto. Certo, si rischierebbe una babele di Regioni «sovrane» che minerebbe il rapporto con imprese e mercati.
Alcune Regioni (poniamo le più ricche, del Nord) potrebbero allora fare ricorso all’articolo 117 comma 8 della Costituzione che consente di creare «organi comuni» di gestione delle materie: banalizzando, di confederarsi. Magari si tratterebbe di superare resistenze delle burocrazie locali e ostacoli procedurali. Ma alla fine apparirebbe la mappa del Grande Nord sognato da Gianfranco Miglio, una sorta di Stato sostanziale dentro lo Stato formale, padrone di gran parte del Pil. Con un problema, tuttavia, che non dovrebbe sfuggire neppure agli autonomisti più ferventi: una macroregione siffatta resterebbe una micronazione nel concerto mondiale, un nano appetibile per tutti gli scalatori stranieri e, soprattutto, un’entità priva d’un discorso legittimante nazionale: una costruzione solo economica e, paradossalmente, simile in questo all’Unione europea tanto invisa ai leghisti.
Davvero si potrebbe contrapporre senza sorridere il mito celtico al sangue dei ragazzi del Lombardo-Veneto scesi ad affrancare il Sud dai Borboni durante il Risorgimento? Davvero un Dio Po ripescato dagli archivi oscurerebbe il sacrificio di migliaia di giovani meridionali caduti sul Piave per difendere quelle terre dagli austriaci durante la Prima guerra mondiale? Sembra arduo. Ma anche lasciando da parte la retorica delle origini, i conti non tornerebbero. È reale un paradosso: nelle Regioni del Sud la sanità costa di più ma i cittadini vanno a curarsi al Nord, se possono. Il saldo miliardario negativo, certificato dalla fondazione Gimbe, è andato però peggiorando negli anni proprio col regionalismo. Non staremo correndo verso la causa dei nostri mali? Infine, in cima al programma del partito di maggioranza c’è il rafforzamento dell’esecutivo e della sua stabilità, ora declinato col premierato. Ma un premier forte davvero vorrebbe governare un guscio svuotato? È difficile che nei mesi a venire Giorgia Meloni non finisca per porsi questa domanda. Forse, a giudicare dalle sue mire sul Veneto leghista motore dell’autonomia, già se la sta ponendo.

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