La discussione partita da una proposta coraggiosa della Commissione sta risolvendosi in un compromesso politico di bassa portata. Ma tornare al vecchio accordo sarebbe peggio
Dopo mesi di negoziato, sembra che si sia trovato un accordo sulla riforma delle regole fiscali europee, il cosiddetto patto di Stabilità. In realtà, nonostante Francia e Germania abbiano trovato i termini del compromesso e l’Italia si sia accodata all’ultimo momento, non è ancora detto che la proposta passi. Per questo c’è bisogno dell’unanimità e il verdetto sarà il 21 dicembre. Se è presto quindi per cantare vittoria, vale però la pena di riflettere se l’accordo sia ragionevole e costituisca un progresso rispetto al vecchio Patto. Si arriva a questo compromesso dopo un iter molto lungo che comincia nel novembre del 2022, quando la Commissione Ue aveva avanzato una proposta coraggiosa. Coraggiosa perché abbandonava regole costruite con numeri uguali per tutti, e imposte da Bruxelles, sostituendole con un processo più flessibile che permetteva ai Paesi di presentare un piano a medio termine come base per una discussione sul percorso da seguire per garantire la sostenibilità del debito nel medio periodo. Una procedura che, pur tenendo fermo il principio della sostenibilità dei conti pubblici, permetteva di tenere conto delle specificità di ciascun Paese. La proposta affermava un principio importante: un percorso di consolidamento del bilancio non si può fare sulla testa di chi il consolidamento lo deve mettere in atto e deve tenere conto delle particolari circostanze in cui ogni Paese si trova.
Il livello del debito non è il solo indicatore per determinare la sua sostenibilità. Contano le prospettive di crescita, la qualità delle riforme, vincoli e opportunità specifici. Per questo la proposta prevedeva che il tempo concesso per ridurre il debito — 4 o 7 anni — dipendesse anche dalle riforme che lo avrebbero accompagnato.
Ma la Germania — o meglio il ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner — ha ritenuto la riforma non credibile e questo soprattutto per mancanza di fiducia nella fermezza della Commissione nel fare rispettare le regole. La Germania ha quindi chiesto che venissero introdotti nuovi parametri — le cosiddette «salvaguardie» — per i Paesi ad alto debito e alto deficit. Queste salvaguardie impongono ritmi più veloci di aggiustamento dei conti ai Paesi ad alto debito e deficit. Pur non avendo un effetto tangibile per l’Italia, almeno negli scenari più realistici, aprono però potenzialmente la strada al difetto più grave del vecchio Patto di stabilità: il rischio che possano indurre pro-ciclicità, cioè costringere a ridurre la spesa o aumentare le tasse quando l’economia è debole.
Ci si sarebbe aspettati che Francia e Italia avrebbero combattuto una battaglia per sostenere l’impianto originario della riforma e concentrato il negoziato sull’eliminazione o perlomeno modifica delle salvaguardie, ma non è stato così. Il perno del negoziato è stato invece sulle regole che scattano quando un Paese è sottoposto alla cosiddetta «procedura di deficit eccessivo» che si applica a Paesi con debito alto e un deficit al di sopra del 3%. Questa procedura correttiva, prevede che in questo caso il deficit debba essere ridotto di mezzo punto ogni anno, fino a che non scenda al di sotto del 3% e questo indipendentemente dal risultato dell’analisi di sostenibilità di cui parlavamo sopra.
Non stupisce che sia andata così. La maggior parte dei Paesi, inclusi Francia e Italia, saranno sottomessi alla procedura di deficit eccessivo a partire da gennaio, qualsiasi sia il destino della riforma fondamentale e resteranno in questo regime per i prossimi tre o quattro anni. Nell’orizzonte dei governi in carica ciò che conta è il breve periodo.
E così, una discussione che era partita da una proposta coraggiosa della Commissione sta risolvendosi con un compromesso politico di bassa portata. La Francia ha offerto ai tedeschi uno scambio: vanno bene le nuove regole (salvaguardie) sulla riduzione del debito, anche se sono potenzialmente pro-cicliche, purché nei prossimi quattro anni — cioè finché Francia, Italia e altri rimarranno in procedura di infrazione —, il deficit possa scendere più lentamente. Da una riduzione di mezzo punto l’anno a una di circa la metà.
Questo consente alla Francia di avere da oggi alle prossime elezioni, che saranno nel 2027, un po’ più spazio di bilancio. Poco male se si è persa l’occasione per una battaglia sui principi che devono governare la politica fiscale europea. La stessa critica vale per l’Italia che ha insistito su più flessibilità nel breve periodo ma non è entrata nel merito della riforma che scatterà una volta usciti dalla procedura di infrazione.
Il governo ha cantato vittoria. Certo, l’accordo franco-tedesco — se fosse approvato — ci permetterebbe nei prossimi tre/quattro anni un aggiustamento più graduale di quello che lo stesso governo aveva previsto. Ma usciti dalla procedura di infrazione entreremmo in un brutto accordo, sia per la sua complessità — eccezioni e cavilli che lo rendono poco trasparente —, sia per il motivo già ricordato: il rischio di pro-ciclicità. La consolazione è che nonostante ciò la riforma della Commissione, anche con le salvaguardie, è migliore del vecchio Patto. Se il compromesso franco-tedesco non fosse accettato, da gennaio ritorneremmo alle vecchie regole che potrebbero essere davvero costose. Incrociamo le dita quindi, ma con la bocca amara perché mesi di negoziati sono stati mal spesi per il cinismo della Francia, una concezione tedesca meno cinica ma sbagliata e un’Italia che non si è quasi sentita.