Nessuna «candidatura nazionale» per un Paese che vuole giocare un «ruolo da protagonista» in Europa sulle idee e non «aggrapparsi a scelte di natura geografica».
Il premier Matteo Renzi si sfila così dal toto nomine, lanciando un messaggio sia a Roma che a Bruxelles, e puntando dritto sui contenuti. Perché «il protagonismo – scandisce – non lo assicurano i nomi, ma le idee».
Per questo, a Bruxelles, poco prima dell’avvio del G7, vede in bilaterale Angela Merkel e David Cameron. Da un lato la cancelliera tedesca, che sta faticosamente cercando di trovare un equilibrio nel complicato risiko dei nomi e sembra piuttosto scoraggiata visto che a fine giornata non nasconde che il negoziato sulle nomine «è molto difficile». Dall’altra il primo ministro britannico, che rimane granitico sul suo aut aut: se Jean Claude Juncker, candidato del Ppe, diventa presidente della commissione noi usciamo dall’Ue. Al centro Renzi, che decide di giocare un ruolo tutto diverso e propone un accordo sui criteri prima di individuare i nomi, una sorta di piattaforma programmatica alla quale potrebbero aderire «diversi Paesi Ue». Se non proprio un ruolo di mediatore, certo quello di chi si sfila dalle guerre di posizione sui nomi e da premier di un Paese rafforzato da un voto europeista, si fa promotore di una terza via, che regala anche un po’ più di tempo per uscire dal tunnel nel quale sembra essersi impantanato il dibattito sulle nomine.
«Il governo italiano – dice Renzi in conferenza stampa – afferma che una politica basata sul rigore e l’austerity e non sullo sviluppo e la crescita ha mostrato il proprio limite: si è chiusa quella fase e oggi è matura la consapevolezza che bisogna aprire una pagina nuova e investire sulla ripresa. I nomi devono essere conseguenza delle scelte di agenda». Certo, anche se Renzi non ne pronuncia il nome, indubbiamente non suona come un endorsement a chi, come Juncker, ha guidato l’Eurogruppo negli anni più duri della crisi e dell’austerity.
Ma la questione, torna a ripetere il premier, sono i contenuti. E tira dritto anche sul gioco dei bilanciamenti tra paesi: «La Bce – dice rispondendo ad una domanda – non c’entra nulla con le nomine, ha un mandato ancora per 5 anni e credo che ci sia un consenso molto forte rispetto all’azione che sta mettendo in atto» Mario Draghi. Quello che conta sono gli obiettivi: sburocratizzare l’Europa e trasformarla nel «luogo dei progetti coraggiosi». Per questo ora è il momento degli accordi, intesi «nel senso più nobile del termine», precisa il premier, e non dei nomi, né dei veti. «Nessuno può dare diktat – dice chiaramente Renzi – anche perché nessun candidato ha ottenuto la maggioranza». Quello che serve è «un punto di intesa complessivo». La discussione partirà da chi si è candidato, precisa, ma uno «sforzo democratico significa cercare di dare risposta ai cittadini e non alle ambizioni dei candidati». Niente nomi, dunque, ma una caratteristica sì: più donne. Ma del resto, dice, al momento ce n’è una su quattro, peggiorare è difficile.
Quel che è certo è che se l’Europa voleva dare un’immagine nuova, né paludosa e neppure burocratica e bloccata nelle vecchie liturgie della politica, per il momento non ci è riuscita. E lo dimostra lo stesso presidente Usa Barack Obama che in conferenza stampa, nonostante i due giorni trascorsi con Barroso e Van Rompuy, prima ammette di fare a volte «confusione» tra Commissione Europea e Consiglio europeo (ottenendo di rimando un «benvenuto nel club» da Cameron in veste eurosarcastica) e poi interviene per cercare di ricucire i soliti bisticci interni: «È difficile per me – dice – immaginare la Ue andare bene senza la Gran Bretagna, e non credo ci sia un vantaggio per la Gran Bretagna essere esclusa dalla Ue».