Fonte: Corriere della Sera
di Francesco Verderami
L’appello di Gentiloni: non è il tempo delle irresponsabilità. La bocciatura della legge elettorale avrebbe formalizzato la crisi del sistema, avrebbe spianato il Parlamento e scosso il Quirinale
La fiducia posta dal governo sulla legge elettorale aveva certificato la crisi dei partiti. La bocciatura della legge elettorale avrebbe formalizzato la crisi del sistema. L’onda sismica non avrebbe terremotato solo il premier e il suo governo, il Pd e il suo segretario, Forza Italia e il suo leader, avrebbe spianato il Parlamento e scosso il Quirinale, cioè — per dirla con il centrista Cesa — «tutti coloro i quali hanno apparecchiato il tavolo della trattativa sul Rosatellum». Perciò un diccì come Rotondi, che ha vissuto la fine della prima Repubblica, nelle ore di vigilia sosteneva che l’affossamento della riforma sarebbe stato «peggio del ’92. Piuttosto che affannarci alle urne, faremmo prima a dare le chiavi del Palazzo a Grillo».
Complicato scoprire i renitenti
Ecco quale era la posta in gioco. Ecco perché Gentiloni invitava a mettere «l’Italia al primo posto», siccome «non è il tempo dell’irresponsabilità». Ecco perché Renzi e Berlusconi si erano approssimati all’appuntamento rinnovando l’appello ai rispettivi deputati. Ognuno con il proprio stile. E se al telefono il Cavaliere firmava pagherò a tutti gli azzurri con un «garantisco io per te», il segretario democratico faceva diffondere messaggi nemmeno da decrittare: «Capisco che qualcuno, con questa legge, possa temere di non essere ricandidato. Ma se questa legge non passa, è certo che nessuno sarà ricandidato». In effetti sarebbe stato complicato scoprire i renitenti: i forzisti del Sud che temono di essere gabbati o quelli del Centro che nelle proiezioni non prenderebbero un collegio? E i democrat settentrionali davvero sarebbero più penalizzati di quelli meridionali? Per tutta la giornata si è inutilmente tentato di dare un volto ai franchi tiratori, militi ignoti destinati ad esser ricordati come «traditori» o «liberatori» a seconda della parte presa. Quale fosse il loro ruolo per Bersani era chiaro, avendo incoraggiato in Aula al dissenso i suoi ex compagni del Pd, «anche perché non sarebbe il caos come si va dicendo». Fine del discorso, vivi applausi dei fittiani e corsa preoccupata verso quei banchi di un gruppo di forzisti e democratici.
Accordi lasciati a metà
«Ma tanto non succederà nulla», aveva pronosticato il leader di Mdp lasciando l’Emiciclo. E in effetti l’atmosfera in Transatlantico, rispetto ai tempi dell’accordo sul tedesco, non era quella dell’imboscata. La presenza di Ap (e l’assenza dei grillini) nel patto aveva contribuito a stabilizzare l’alleanza e aveva consentito di usare la fiducia. Eppoi che fosse cambiato il clima lo si capiva dal modo esagitato in cui parlava al cellulare Portas, detentore di un pacchetto di voti in Piemonte portati finora in dote al Pd: «Scusa, ma se lì ci sono 23 collegi…». Non si sa con chi stesse parlando e nemmeno come sia terminata la trattativa. Ma è da giorni che si imbastiscono accordi lasciati a metà in attesa del voto segreto.
«Salvinizzazione del centro-destra»
Un voto che — fosse andato male — non avrebbe avuto un seguito. Gianni Letta, che fino a lunedì sperava in un «terzo tempo» sulla legge elettorale, dopo la fiducia si è arreso. Sul merito la pensava pressappoco come Bersani, secondo il quale «bocciando il Rosatellum c’è sempre il Consultellum da aggiustare per arrivare a un proporzionale. E a quel punto si chiederebbe agli italiani da chi e in che modo farsi governare». Ma il braccio destro di Berlusconi era consapevole che l’atto «tecnico» del governo aveva cambiato il quadro politico. Perciò ha cambiato approccio nelle conversazioni. «Bisognerà lavorare per la riduzione del danno», ripete ora agli interlocutori: «Andrà posta attenzione sulle candidature nei collegi», temendo che la riforma inneschi un processo di «salvinizzazione» del centro-destra. Fuochino. «Al Nord abbiamo quanto abbiamo, al Sud — secondo i sondaggi — siamo davanti a FdI in tutte le regioni tranne una…», sorrideva ieri il vicesegretario della Lega Giorgetti, come si preparasse a un lauto pranzo. Per garantire le elezioni il 4 marzo, il Rosatellum arriverà al Senato blindato. L’ex ministro delle Riforme Quagliariello sa che non ci sarà spazio per modifiche e cerca di addolcire la cosa con ironia: «Tanto a me, più del capolista bloccato interessa la capolista bloccata». E forza Napoli…