POLITICA
Fonte: La Stampa
Il premier illustra il programma a lungo termine in Parlamento: “Non temiamo le elezioni”. Riparte lo scontro sull’articolo 18. Fassina insorge: “Matteo parla il linguaggio della destra. Polemica anche sulla giustizia. L’Anm respinge le accuse: nessuna interferenza sulle aziende
2018 O 2015?
Andremo avanti per altri tre anni ma, dice forte e chiaro il premier, non perché «abbiamo paura» di elezioni anticipate ma perché bisogna «rimettere in pista» l’Italia con riforme che devono marciare «insieme», dalla legge elettorale a quella del lavoro. Tuttavia ogni valutazione sul passaggio elettorale – aggiunge – deve essere preceduta dalla valutazione sulla capacità di questo Parlamento di fare le riforme nei prossimi tre anni. Noi chiediamo di abituarci al concetto che si vada a votare a febbraio 2018».
“NESSUNA DILAZIONE”
A Montecitorio, il premier parla per 45 minuti e sostiene la volontà di tirare dritto: è una lettura «grottesca e persino ridicola» quella di chi ha dipinto il cambio di passo del governo come «una dilazione, un prendere tempo». Al contrario i Mille giorni sono «il cartellone di recupero» perché «l’Italia ha interrotto la caduta ma non basta, non è sufficiente». O ce la fa il governo o «perde l’Italia» visto che in gioco non è tenere «in piedi la carriera di un singolo parlamentare o di un membro governo ma l’Italia».
VOTO ANTICIPATO SE IL PARLAMENTO NON FA LE RIFORME
«L’ipotesi di un voto anticipato – chiarisce Renzi in Senato – potrebbe essere presa in considerazione solo se il Parlamento si dimostrasse incapace di fare ciò che è necessario nei prossimi anni». «Qualcuno – aggiunge – potrà sostenere che sarebbe necessario andare a votare, per alcuni aspetti potrebbe persino essere, dal punto di vista utilitaristico, una buona idea. Ma ogni valutazione sul passaggio elettorale deve essere preceduta dalla valutazione sulla capacità di questo Parlamento di fare le riforme nei prossimi tre anni. Noi chiediamo di abituarci al concetto che si vada a votare a febbraio 2018».
CONSENSO
Matteo Renzi mette in gioco sé stesso per riuscire a realizzare le riforme: pur non temendo le elezioni anticipate, il premier andrà avanti fino al 2018 perché la vera posta in gioco è tornare a far crescere il paese «reimpostando e rovesciando la scommessa politica e economica di questo paese». Le riforme «o si fanno tutte insieme o non si porta a casa il cambiamento», avverte Renzi. Le riforme istituzionali quindi devono viaggiare di pari passo a quelle economiche e sociali e chi pratica «il benaltrismo come filosofia politica ignora il dato di fatto che non si esce con il passo della tartaruga da 20 anni di stagnazione».
SUBITO LA LEGGE ELETTORALE: “MA NO ALLE URNE”
Dopo aver vinto, con il primo via libera alla riforma del Senato, l’accusa di aver fatto «il primo golpe con la moviola della storia del Paese», il governo ora farà viaggiare sia la riforma istituzionale sia la legge elettorale che «va fatta subito». Non per andare alle elezioni anticipate, chiarisce Renzi, ma per «evitare l’ennesima melina istituzionale». Una riforma che, è l’auspicio, va fatta con il confronto parlamentare «senza bulldozer» ma evitando il rinvio. Il premier ammette che «gli 80 euro non hanno dato gli effetti sperati», ma sono l’inizio di una «strategia condivisa» di riduzione fiscale per rendere il «fisco meno caro possibile».
“PRONTI A DECRETO SUL LAVORO”
Rivolgendosi a tutto il Parlamento, in particolare alla «sinistra», Renzi conferma l’acceleratore sulla riforma del lavoro. Al termine dei mille giorni il diritto del lavoro sarà rivoluzionato perché «non c’è cosa più iniqua che dividere i cittadini tra quelli di serie A e quelli di serie B» e va superato un «mondo del lavoro basato sull’apartheid». Il problema non è il reintegro legato all’art.18 ma la semplificazione della giungla delle regole e, o il Parlamento lavora, «altrimenti siamo pronti anche a intervenire con misure di urgenza».
UE. Il premier evita di aprire lo scontro con i rigoristi europei e non fa cenno ai vincoli europei da rispettare. Ma insiste perché la crescita torni al centro: «Siamo pronti a investire bene i 300 miliardi» annunciati da Jean Claude Juncker e di cui «chiederemo conto». Ma non rinuncia a polemizzare con «le banche d’affari che ci considerano fallite ma sono le stesse che sono fallite e sono state salvate dai nostri fondi».
ARTICOLO 18, RIPARTE LA POLEMICA
Ma l’affondo di renzi sul lavoro fa infuriare la sinistra del Pd. «Parla il linguaggio della destra», attacca Fassina sottolineando che «il termine apartheid utilizzato oggi alla Camera per descrivere le differenze di diritti tra lavoratori è odioso perché scarica il dramma della disoccupazione e della precarietà dei più giovani su lavoratrici e lavoratori che da vent’anni hanno salari reali in diminuzione, oggi prendono poco più di 1000 euro al mese e perdono lavoro a centinaia di migliaia». Così, prosegue «si alimenta la guerra tra poveri invece che concentrare l’attenzione, come dovrebbe fare una forza di sinistra, sull’esplosione della disuguaglianza di reddito e ricchezza sul 10% e, in particolare, sull’1% della popolazione. Così, si aggravano le condizioni di tutti i lavoratori, giovani e meno giovani e si aggrava la recessione. Così non va. Potevamo tenerci il Presidente Monti per attuare la fallimentare agenda dei conservatori europei», conclude Fassina.