Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
Senza l’introduzione di garanzie e contrappesi, a cominciare da un diverso sistema elettorale, un cambiamento in astratto lodevole potrebbe rivelarsi inutile e, alla fine, perfino controproducente
La riduzione di un terzo del numero dei parlamentari non è un bene o un male in sé. Molto dipende dal modo in cui una riforma costituzionale di questa portata viene presentata all’opinione pubblica. Nel momento in cui la Camera la approva, bisogna sperare che forze come il M5S evitino di salutarla rozzamente come taglio delle poltrone e risparmio di soldi; e di agitare lo scalpo dei seggi come un trionfo contro il sistema del quale i seguaci di Beppe Grillo sono ormai da tempo parte integrante. Portare i deputati da 635 a 400 e i senatori da 315 a 200 può placare temporaneamente i malumori verso un potere raffigurato come onnivoro. Ma non risolve il problema dei rapporti tra classe politica e «popolo». Anche perché senza l’introduzione di garanzie e contrappesi, a cominciare da un diverso sistema elettorale, un cambiamento in astratto lodevole potrebbe rivelarsi inutile e, alla fine, perfino controproducente. La stessa quasi unanimità con la quale la legge è stata accompagnata al «sì» ha qualcosa di anomalo, se non artificioso.
E non solo perché in precedenza il Pd si era opposto per tre volte. È vero che è cambiato lo sfondo politico; che l’opposizione della sinistra dipendeva anche dall’esigenza di arginare una maggioranza tra Cinque Stelle e Lega con una forte caratura anti-parlamentare. Va ricordato che nel precedente governo esisteva una sorta di ministero-ossimoro, affidato al grillino Riccardo Fraccaro: quello per i «Rapporti con il Parlamento e la Democrazia diretta», vera contraddizione in termini. Il fatto che adesso sia lo stesso Fraccaro a «firmare» la riforma con l’appoggio di Pd, Leu e Iv, di Lega, Fd’I e FI, rappresenta una garanzia ambigua.
Da oggi, il problema sarà di dimostrare che ne è valsa la pena. I promotori non possono accontentarsi di modificare la Costituzione, senza preoccuparsi di ricalibrarla. La Carta fondamentale è nata per offrire garanzie alle minoranze e per bilanciare con grande sapienza i poteri repubblicani, in modo da evitare prevaricazioni e squilibri. Modificare alcuni articoli senza preoccuparsi dei passi successivi significherebbe stravolgere con superficialità e miopia un testo che spesso si è rivelato un argine contro le spinte più controverse e discutibili.
C’è dunque da riflettere sulla paternità e il senso della riforma. E chiedersi se sia figlia tardiva di un populismo in affanno che pensa così di battere un colpo presso il proprio elettorato; oppure se ne segni un’evoluzione positiva, promuovendo una presa di coscienza trasversale dell’esigenza di cambiare. Se si trattasse solo di blindare la legislatura per impedire elezioni anticipate e garantire posizioni di rendita a chi oggi si sente forte ma teme di non esserlo più in futuro, sarebbe un arretramento e non un progresso.
Certo, bisogna chiedersi perché tagliare di un terzo i parlamentari sia diventato così facile. Dipende anche dalla perdita progressiva di ruolo e di identità del potere legislativo. Il referendum costituzionale del dicembre 2016 che voleva abolire il Senato; le polemiche sull’introduzione del vincolo di mandato per impedire un trasformismo galoppante; i cambi di maggioranza governativa; la selezione di deputati e senatori, avvenuta con criteri che umiliano competenza e qualità: è una somma di fattori che spiegano questo epilogo.
E suggeriscono di non sottovalutarne le conseguenze. A questo punto, il problema è di riaccreditare e puntellare la democrazia parlamentare usando come base il risultato raggiunto. Evitare che diventi una tappa della sua ulteriore delegittimazione è il compito doveroso di chi l’ha voluta e di quanti l’hanno assecondata, per convinzione o per opportunismo. Esiste un impegno a presentare entro dicembre una nuova legge elettorale che sembra preludere a uno scontro aspro tra fautori del proporzionale e del maggioritario.
Comunque la si pensi, è la presa d’atto dell’impatto che le modifiche avranno; e dell’inadeguatezza del sistema attuale a garantire non solo la stabilità ma una fotografia adeguata di una società, oltre che di una politica, frammentate. Pensare di costruire di nuovo un meccanismo di voto solo per impedire a qualcuno di vincere significherebbe tradire quanto è stato fatto, lo si condivida o no. E avrebbe come risultato di allargare il solco tra partiti e opinione pubblica. È bene saperlo per scongiurare pasticci o avventure referendarie destinati a lasciare l’Italia più divisa e prigioniera di una demagogia infettiva.